Dante: recensione del film di Pupi Avati
Dante di Pupi Avati non insegna, ma segna. E questo basta, questo è tutto.
Smarrimento. Questo è ciò che prova lo spettatore non appena le immagini ricamate su celluloide da Pupi Avati in Dante sfiorano le sue pupille. Ci si trova precipitosamente nel mezzo del cammin di una vita che per la verità sta già al termine e ci si domanda, lo si fa fin da subito, dove sia quel Dante Alighieri così composto, serio, confinato in quel tempo lontano, incatenato a quelle logiche politiche e ideologiche così distanti dalla modernità al punto da necessitare di un insegnante che ce le illustri, stroncato dalla noia di ripetersi di anno in anno, in bilico su una corda che aggiunge distanza tra noi e il Poeta. Eppure tutto questo non si avverte. Smarrimento è il sentimento da cui ci sentiamo scossi, come dopo un lungo sonno razionale, ci destiamo con dinnanzi un’immagine dell’Alighieri che non sentiamo gli possa appartenere e, ironia della sorte, proprio per questo inizia adagio ad appartenere a ognuno di noi.
Il Poeta della Divina Commedia si sgretola irrimediabilmente, cessa di cingersi la testa d’alloro, di porsi sul piedistallo della conoscenza; si spoglia di perfezione per farsi uno con noi.
Dante di Pupi Avati: un film di umana poesia
Egli è un uomo del suo tempo, che vive le angosce amorose, si lascia guidare dagli ideali, dalle necessità economiche, dalle amicizie. Vive in una Firenze a noi oramai ignota, assecondando costumi e modi di fare desueti, ma è un uomo talentuoso, vizioso, razionale e irrazionale insieme; è un essere umano afflitto per svariate ragioni, tentenna sulle decisioni da prendere, sbaglia e soffre. Soffre tanto. Soffre come chiunque di noi, subendo l’esilio, la perdita dell’amore della sua vita, il senso di inadeguatezza.
La stessa inadeguatezza che ci coglie alla sprovvista: ci aspettavamo un film che parlasse di Dante col fare istituzionale di chi lo ha studiato, ci troviamo invece a leggere e vedere la lettera d’amore di un gigante del cinema italiano – che si serve a sua volta di giganti – alle prese con un’impresa titanica: risarcire il Sommo Poeta, restituire agli spettatori di ogni età una fotografia puramente umana di colui i cui versi abbiamo imparato a memoria, talvolta senza vedere, senza intuire, senza mai davvero capire.
Si può fare un film di poesia? Pupi Avati ci insegna che si può, ma è necessario oltrepassare l’arco infuocato delle parole, attraversare la loro cruna sottile e inerpicarsi nel cuore della mente che per la prima volta le ha pensate, nel processo psichico e situazionale che gliel’ha fatte sputare fuori e coagulare in inchiostro, nelle mani tremanti che le hanno appuntate e negli occhi che per la prima volta nella storia le hanno lette con entusiasmo e incanto, sentendo nel profondo la voglia e la necessità di traghettarle verso un nuovo anno, un nuovo tempo, una nuova era.
Si scorge in ogni attimo questa urgenza di comunicare, di viaggiare, nonostante sia imprudente e l’olezzo dei morti di peste penetri le narici, nonostante non ci siano certezze.
Sergio Castellitto è Boccaccio: un gigante sulle tracce di un gigante
Il regista e sceneggiatore di Dante sa che per approcciarsi alla grandezza occorre grandezza, perciò rifugge dal proporre una mera trasposizione o riproduzione biografica, consegnandoci invece il racconto di un racconto, cascando con tutto il peso che ha nel cuore nei panni di Giovanni Boccaccio.
Sergio Castellitto, che lo interpreta senza riserve, si fa per certi versi alter ego di Pupi Avati, donandoci un Boccaccio umanamente eroico, appassionato, che a Dante deve l’amore per la poesia, il suo tutto.
L’attore, che come tutti gli altri si cimenta in una meticolosa e riuscita forma di improvvisazione, si intrufola sotto la pelle del più fervido e noto dantista e, nel tragitto che lo conduce verso la figlia del Poeta (Suor Beatrice, interpretata da Valeria D’Obici), custodisce una somma di denaro stanziata dalla città di Firenze al fine di risarcire quell’eretico (come viene definito in una scena, all’interno del lungometraggio) che si fa simbolo di redenzione collaterale.
Il viaggio di Boccaccio nei luoghi e tra la gente conosciuta dal Poeta è crocevia di una domanda che potrebbe non avere risposta: egli va stringendo nella mente una stima sincera e profonda nei confronti del linguista, del politico, del filosofo che è Dante; va senza sapere come sarà accolto né se lo sarà; si incammina verso una figlia allontanandosi dalla propria. Il suo viaggio si fa portavoce di molteplici vagabondaggi nella misura in cui riesce a tragittare le intenzioni dell’autore, incollandosi altresì alla nostra essenza, alla volontà e al bisogno del nostro io di disperdersi per il mondo, di conoscere, di dare un nome e una collocazione a ciò che ci succede.
Boccaccio (e per rimando Castellitto) riesce a farsi piccolo, a indietreggiare, a chinare il capo davanti alla maestosità, non scalfendo tuttavia nulla della sua grandezza letteraria, piuttosto la amplifica e umanizza, innescando una catena di simboli, aneddoti, spiegazioni che inizia con l’acquisto della bambola nuziale di Beatrice per esplodere nell’incontro con la figlia di Dante, al buio, nella pace di un convento nel ravennate, dove l’autore del Decameron e la monaca si confidano. Ella si riappropria silenziosamente dell’identità paterna, regala al suo ospite uno scorcio di quel bambino che mangiava dei frutti, aprendo una finestra di tenerezza che non ha eguali. In mezzo a tutta quella morte che brucia gli angoli e fa per invadere l’interno, in mezzo a tutta quell’agonia, alla disperazione, sopravvive miracolosamente quel bambino che Dante Alighieri è stato e si incastra, finalmente, in tutte le particelle del lungometraggio, quell’anelito di “per sempre” che solo il Poeta sa gridare sussurrando.
Alessandro Sperduti (che incarna il giovane Dante) in questa litania di parole si perde fino a confondersi con esse. Le pronuncia estraendole dal suo tempo, fornendoci traccia di una conoscenza che ci è stata inculcata mnemonicamente e che sulla pellicola si concretizza in sguardi intensi di Paradiso e Inferno, in sprazzi di Dolce stil novo che piovono sulle labbra come diamanti, evocando dedizione e amore. I giochi di luce e parole non dette, che Sperduti pronuncia in una silenziosa sintonia con Carlotta Gamba (Beatrice) impregnano lo schermo di un amore che oggi sarebbe difficile da immaginare, eppure sappiamo che è esistito e, se lo sentiamo, esisterà ancora.
A supportare i personaggi principali provvedono una serie di attori italiani che, da Enrico Lo Verso ad Alessandro Haber, passando per Gianni Cavina e Milena Vukotic (ma anche Leopoldo Mastelloni, Ludovica Pedetta, Romano Reggiani, Paolo Graziosi, Mariano Rigillo, Valeria D’Obici, Patrizio Pelizzi, Giulio Pizzirani, Erika Blanc, Nico Toffoli, Eliana Miglio, Cesare Cremonini (II), As Chianese, Morena Gentile, Augusto Zucchi, Enrico Beruschi, Leonardo Della Bianca, Andrea Santonastaso, Filippo Velardi) provvedono a riempire lo schermo di mille sfumature di umanità talvolta saggia, accogliente, accondiscendente, altre volte scontrosa, bellicosa, gretta.
Così Pupi Avati ci guarda attraverso la magnificenza del suo Dante
Da buon artigiano del cinema Pupi Avati sa suggestionare senza ricorrere alla retorica e senza abbandonare la sua nota stilistica. A lui non interessa adeguarsi al cinema contemporaneo nella stessa misura in cui a Dante non interessa essere un uomo del nostro tempo. Entrambi, il regista e il Poeta, si trovano nel posto assegnato loro dalla fama e sanno che alla vera comunicazione non interessa il mezzo, quanto il contenuto. La vera arte non si avvinghia alla forma, nutre senza riserve la capacità di essere e restare umano, senza edulcorare il sentire, senza sottomettersi alle logiche del volere altrui. Dante ci guarda dentro e ci consegna le chiavi della sua religione, del suo tempo. Lo fa in un mitico e pindarico passaggio di testimone che da Boccaccio passa ad Avati servendosi di simboli: la bambola che da Beatrice arriva alla figlia di Boccaccio; il denaro che è sinonimo materiale di risarcimento – lo stesso che il regista sente di dare al Poeta -; l’iter stesso che compiono le opere e lo stesso itinerario che il protagonista compie, calpestando gli stessi luoghi del suo ineccepibile maestro, rintracciando gli stessi volti che anch’egli ha incontrato durante l’esilio.
A tenere stretto questo manipolo di sensazioni provvedono le musiche di Lucio Gregoretti e Rocco De Rosa, sinfonie che avvolgono e assecondano la bellezza, facendosi largo negli spazi (siti perlopiù in Umbria e, in piccola parte, anche nel Lazio e in Emilia Romagna, come sottolinea Cristina Bravini, direttore di produzione e location manager) consumati dal marciume medievale. Il buio di quel tempo arriva a noi (complice anche la fotografia di Cesare Bastelli), è un pugno allo stomaco, un tempo che non vorremmo riesumare, eppure lo sentiamo sotto le dita, a contatto con la pelle. Ci si stampa dentro gli occhi in truculente immagini, quelle in cui emergono anche gli effetti speciali del mitico Sergio Stivaletti.
Ci arrivano, con un’irruenza silenziosa, tutto quel dolore, tutto quell’amore che Dante ha vissuto. Se lo spunto principale porta il titolo del prosimetro La Vita Nova (scritto dall’autore dopo la morte di Baetrice Portinari), sulla carta esso va palesemente oltre, in una sinestesia in cui letteratura e fantasia convergono e in cui la morte, ovvero la perdita fisica di qualcuno, scandisce tempi e pensieri.
In uno sforzo di sintesi, in fondo, è come se questa pellicola altro non fosse che la risultante di un’immensa perdita e di un’avvertenza della stessa; è nel frangente in cui Pupi Avati si accorge di dover riesumare un’immagine smarrita del Poeta che emergono la perdita avvertita da Boccaccio e, di conseguenza, si scava nelle perdite subite dallo stesso Dante: la madre, l’amore, l’amico Guido (Cavalcanti), la patria. E alla fine c’è solo una cosa che risarcisce tutti, che resiste al tempo e persino alle angherie subite ed è la poesia (coincidenza terrena di suoni e grafemi che sono, senza troppi giri di parole, “vita”).
Dante, in conclusione, non può essere definito un film che insegna. Non nella misura in cui lo si vede per sostituire un’antologia. Dante però segna, lascia un marchio indelebile nella mente dello spettatore, lo induce a esplorare gli angoli morti di questa tavolozza in perenne movimento, a non accontentarsi. E questo basta, questo è tutto.
Il film è al cinema dal 29 settembre 2022 grazie a 01 Distribution, prodotto da Antonio Avati per DUEA FILM con RAI CINEMA e con M.G. Production.