Margini: intervista al regista Niccolò Falsetti e all’attore Francesco Turbanti
Uno dei film rivelazione di Venezia 79 è stato Margini: abbiamo incontrato regista e attore, che insieme ne sono anche gli sceneggiatori. Il film è al cinema!
Margini, il film diretto da Niccolò Falsetti e interpretato da Francesco Turbanti (che si è occupato anche della sceneggiatura insieme al regista) è stato uno degli eventi, inaspettati, della 79ma Mostra del Cinema di Venezia nella sezione della Settimana della Critica. Abbiamo avuto modo di fare una lunga chiacchierata con entrambi. A rompere il ghiaccio durante la nostra intervista è stato il regista, che ha iniziato a parlare della pellicola a partire dalla storia in essa narrata, quella di “tre ragazzi che vivono in una cittadina di provincia e vogliono andare a vedere il concerto di una loro band a Bologna. Questo concerto però salta per motivi indipendenti dalla volontà di nessuno, e loro, che sono anche musicisti e sono stanchi di suonare in contesti un po’ scadenti davanti ai soliti quattro gatti su palchi improvvisati e situazioni improbabili, decidono di organizzare un concerto di una grossa band di Boston a Grosseto, la loro parte di mondo dove non succede mai niente. E da lì parte la loro battaglia contro la provincia per organizzare l’evento”.
Margini: intervista a Niccolò Falsetti e Francesco Turbanti
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Francesco (Turbanti) questo è un film che parte da lontano, la prima stesura risale addirittura al 2014. E la vostra amicizia è addirittura ancora più longeva! Dove, come e quando vi siete conosciuti?
“In realtà ci siamo conosciuti nella fine estate della mia quinta elementare, si era proprio piccini quando abbiamo iniziato ad essere amici. Ma la cosa figa è stato che ad un certo punto ci siamo trovati a fare tutto insieme: si faceva scuola insieme, si facevano piani tutti insieme, tutte le cose che riguardavano le scuole medie si faceva insieme io con Nico… e soprattutto, ad un certo punto, quando siamo diventati un po’ più grandicelli, insieme ad altri due amici fraterni ci è venuta questa malattia, la voglia di fare musica punk. Quando inizi non va più via, per questo si può definire malattia… E facevamo musica dappertutto ma nei luoghi più difficili, principalmente o scantinati o poderi semi diroccati che diventavano le sale prove. Lì ci passavamo veramente le giornate.”
Margini e il rapporto col punk: un modo d’essere
“C’era un nostro amico che ci diceva, quando ci vedeva la sera al bar, ‘oh voi che la smettete di vivere in uno scantinato?’, perché in effetti quello era che facevamo, respirando muffe che non sono state molto piacevoli… La testata della mia chitarra continua ad avere delle macchie verdi che venivano da quel momento lì, sono abbastanza sicuro.
Mi vergogno anche un po’, se penso alle chitarre degli altri con le testate fiammanti!!! Suonando insieme, vivendo in quelle situazioni per tanto tempo, nel momento nevralgico dello sviluppo umano dell’esistenza, ci ha reso una cosa sola. Ovviamente ci univa un’altra grande passione, quella del cinema: e da allora la collaborazione è partita.”
Il punk è un termine che serve ad identificare quella cultura giovanile emersa negli Stati Uniti e nel Regno Unito a metà degli anni Settanta, e nacque dalla musica punk o meglio punk rock. E come tutti i movimenti culturali, è stata lentamente poi assorbita dal mainstream. Per voi cosa c’è oggi di veramente ancora punk?
A rispondere alla nostra domanda è il regista Niccolò Falsetti: “Beh, si. Certo è difficile da definire perché il punk respinge un po’ le definizioni, e poi abbiamo poca confidenza con le etichette, abbiamo sempre difficoltà a parlarne perché appunto può suonare sempre un po’ retorico.
Quello che sappiamo è che viverlo è l’unico modo per capirlo e comunque non basta. Perché alla fine è qualcosa che ha la volontà di rimanere sempre aperto e cadute estremamente radicali, sguardi ipercritici. Il punk è facilmente accessibile e difficilmente comprensibile, non so come dirlo altrimenti. È molto strano raccontarlo, perché quando ci sei stato dentro, ogni volta che la racconti fuori ti sembra sempre di rimpicciolirla, di farla vedere in maniera semplificata e invece è una roba complessa.”
“È strano il rapporto con il mainstream: noi chiaramente abbiamo fatto un film punk perché lo siamo anche noi, però chiaramente con tutte le necessità di un film per essere fruito rispetto ad un disco. Abbiamo fatto musica e dischi, quindi conosciamo quel tipo di circuitazione che è quella che ci appartiene e ci crediamo; per un film è più difficile farlo correre su quei binari.
Quando abbiamo iniziato a scrivere Margini per noi il cinema era diventato un lavoro: e avevamo anche la voglia di fare un film che parlasse del punk in maniera diversa. Ma ripeto, i confini sono labili e fluidi. Per noi, il mainstream del punk degli anni in cui eravamo noi alle medie erano i Blink 182 eccetera, era materiale d’accesso: ma quando poi ci sono arrivati i primi dischi punk tra le mani, la passione ci ha divorati perché eravamo pronti, in quanto il mainstream ci aveva già preparato, aveva già aperto uno spiraglio.
Quello che il punk ci ha insegnato è più che altro un modo come intessere le relazioni e ci viene automatico: lavorare in team, organizzare il lavoro in maniera orizzontale, cercare collaboratori che capiscono quello che fai e con cui condividi interessi, essere rispettosi delle dinamiche culturali che ognuno si porta dietro… insomma, è stata una scuola, per noi. Insegnamenti che si estendono nella parte esistenziale e artistica.“
Niccolò Falsetti e il rapporto con i Manetti Bros.: “a metà tra fratelli maggiori e padri putativi”
Nel vostro film sono coinvolti anche i Manetti Bros. Niccolò tu avevi già lavorato con loro sul set de L’Ispettore Coliandro, Francesco sul set di Diabolik 3: cosa hanno dato e cosa è rimasto di loro in Margini?
“I Manetti sono amici a metà tra fratelli maggiori e padri putativi. E sono persone che io stimo in maniera assoluta e incondizionata e infinita. Tornando al momento che dicevi prima, Zora La Vampira è il primo film per cui ho avuto un piccolo culto, insomma li veneravo da lontano: da loro ho imparato tanto, lavorandoci insieme.
Quando siamo arrivati a Roma, eravamo un po’ provincialotti: quando poi invece ho iniziato a lavorare con loro avevo più esperienza. Però è stato qualcosa di diverso: ho visto due persone che lavorano nella loro squadra in una maniera che non avevo mai visto.
Gli altri set su cui ero stato erano sempre un po’ tutti uguali, alcuni metodi mi piacevano altri per niente: con loro è stato tutto profondamente diverso. Dal punto di vista artistico e umano, insieme, sono dei registi di assoluto livello, di grandissima consapevolezza: e io avevo la sensazione di essere in casa, per me è stata questa la cosa più preziosa.”
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“E mi ha fatto davvero, davvero capire quanto è necessaria la presenza di ognuno, sul set. Comunque, dopo due regie, dopo Diabolik, è venuto quasi spontaneo che loro leggessero questo copione a cui lavoravo da tanto tempo e da cui loro si erano sempre tenuti lontani. Ma perché non volevano sembrare invadenti nei confronti dei nostri produttori.
Sono stati quindi di un supporto fondante: capiscono la disperazione, chiamiamola così, di chi non riesce a far partire un progetto. Hanno questa dote: con loro ti senti subito immerso nel lavoro. “Buttati, vai nuota!”, ti fanno sentire protagonista del lavoro che fai, ed è molto bello. Ho saccheggiato tantissimo da loro, ho rubato avidamente con gli occhi.”
Margini e il cordone ombelicale con la provincia
C’è una frase nel film che racchiude perfettamente il senso, “la provincia lontana due ore da tutto”: c’è tutto il disagio esistenziale, la rabbia, l’insofferenza alla provincia. C’è per voi due, oltre a questi sentimenti, anche un senso di affetto che vi lega alle vostre origini geografiche?
“Credo che possiamo rispondere insieme e coordinati”, – dice Francesco Turbanti – “è una riflessione che abbiamo fatto tutti e due scrivendo il film, ma che ci ripetiamo anche scrivendo il pezzo nuovo della nostra band. Il legame alla provincia è come un cordone ombelicale elastico: il collegamento tra centro e margine, periferia. È una relazione che ovviamente riporta ad una fune a quel posto là, perché ci sei cresciuto, ci sei nato, hai fatto le prime esperienze.
È elastico perché vuoi scappare, ti allontani, ma il cordone ti tira verso quel luogo e ritorni. Ci stai anche bene: quando noi due torniamo a casa (anche se ormai abbiamo fatto più anni a Roma che a Grosseto), proprio torniamo a casa. È un legame forte, i primi due giorni tutto bene, il terzo scricchiola qualcosa e il quarto non vedi l’ora di andar via.
Se volessi raccontarlo in modo ancora più punk, c’è la frase di una canzone – anche se ce ne sono diverse -, che dice ‘amore e odio per la mia città’: se c’è amore ci deve essere anche odio. Altrimenti resta solo l’indifferenza.”