La ragazza della palude: recensione del film
Poco mistero, molte riflessioni e tanta bellezza nel film con Daisy Edgar-Jones.
C’è meraviglia, resilienza, conflitto e un mistero che si sgretola lentamente, senza sbavature, in una natura che è madre e matrigna. È un coming-of-age che si lascia scorrere, La ragazza della palude, lasciando a galla tante riflessioni e pochi dubbi, adagiandosi tra gli anfratti acquitrinosi della Carolina del Nord e riportando lungo la sponda del grande schermo cinematografico tutte le parole di Delia Owens, autrice dell’omonimo romanzo (edito in Italia da Solferino) da cui il film è tratto.
Presentato in anteprima al Festival di Locarno, La ragazza della palude arriva nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 13 ottobre 2022 grazie a Sony Pictures, ammaliando il pubblico con lo charme e la bravura della protagonista Daisy Edgar-Jones (a cui è andato il Leopard Club Award 2022), che si cala nei panni di Kya, una ragazzina dal passato burrascoso che impara a vivere da sola, amando e facendo proprie le bellezze della natura che la circonda. Ed è proprio il creato a essere misura di tutte le cose, calcolatore silenzioso di un’esistenza che si lascia mettere a paragone, che lascia porre su un piatto della bilancia gli esseri umani, con tutte le loro leggi, la morale, le paure e sull’altro la palude: spazio ameno che si fa compagna, insegnante, tribunale, palcoscenico di un dramma che non conosce i concetti di giusto e sbagliato e che considera la morte come un evento ciclico, un ritorno a ciò che siamo stati.
La ragazza della palude: un racconto fatto di emarginazione e peculiarità
Nella pellicola diretta da Olivia Newman la morte conquista la scena fin dal principio, lasciandoci precipitare sull’orlo di un legal drama, salvo poi tirarci su con la fune di una serie di flashback, così da guidarci nella vita della protagonista. Il suo racconto a ritroso ci fa spalancare gli occhi verso gli intrecci infantili e adolescenziali di Kya; il film si appropria del dramma familiare che ella vive: la violenza perpetrata dal padre nei confronti della madre e dei figli, il bisogno successivo di sopravvivere, rinunciando ad andare a scuola e scegliendo di lavorare, l’attaccamento viscerale a un luogo che è ammucchio di ricordi, essenza di un passato a tratti felice, sostanza vera di ciò che Kya stessa è. Non a caso il titolo italiano La ragazza della palude, che seppellisce l’originale e forse più incisivo Where the Crawdads Sing, ci dirotta verso lo status di emarginata in cui la protagonista vive; le dicerie sul suo conto e il modo stesso in cui viene identificata dagli abitanti della vicina Barkley Cove ci sottolineano il fatto che Kya sia a tutti gli effetti un’esclusa. In questa diversità però è insito il senso del suo essere speciale, in un arcobaleno di peculiarità che si estende dalla conoscenza degli animali che popolano la palude fino alla perseveranza di rimanere a tutti i costi in quel luogo così selvaggio.
Daisy Edgar-Jones domina la scena al pari di una fotografia degna di nota
A tal proposito è chiara la forza interpretativa di Daisy Edgar-Jones (già nota ai più per la serie TV Normal People e per il film Fresh), la quale domina sul grande schermo prendendoci per mano e facendoci entrare a far parte del suo mondo. In ogni suo gesto c’è emancipazione, intelligenza, resistenza; c’è l’amore incondizionato verso la parte più intima di sé, un dedicarsi alla sua anima incondizionatamente, senza riserve.
La protagonista si accetta per ciò che è, è conscia della sua perfezione, della sua appartenenza a quel mondo, del ritmo delle stagioni; si fa una con la filosofia della palude fino a diventarne parte, in uno slancio romantico in cui l’essere umano appare come un semplice ingranaggio, in cui la morte fa parte di un ciclo obbligatorio e naturale che la sveste dalla colpa e dal peccato e l’amore, quello vero, è congiunzione astrale.
La delicatezza testarda di Kya emerge in La ragazza della palude anche grazie al contrasto con la stereotipata società americana degli anni ’60, fatta di ragazzi dolci e sognatori (come il personaggio interpretato da Taylor John Smith), altri violenti e benestanti (è il caso del personaggio di Harris Dickinson) e pochissimi – una coppia di colore (interpretata da Michael Hyatt e Sterling Macer) – di buon cuore. Così facendo la pellicola tratteggia una condizione che non spicca per originalità, monitorando adagio l’attenzione più verso il vissuto della protagonista che verso il reale mistero che si intreccia lungo l’intero minutaggio, il quale è di fatto un pretesto per mettere in luce la particolarità di Kya, mostrandoci il suo iter dall’isolamento all’aula di un tribunale, nonché tutte le sfaccettature del suo carattere.
A farla da padrone, oltre all’interpretazione del cast, è senza dubbio una fotografia nitida e realistica, a tratti documentaristica, che non risparmia dettagli, riflessi lacustri e prati soleggiati. La regia di Olivia Newman, sorretta dalla sceneggiatura di Lucy Alibar e da una colonna sonora che vanta al suo interno il singolo di Taylor Swift Carolina, ci fa sorvolare lo specchio d’acqua placida sul quale si riflettono le barche e i fitti fili d’erba, ci lascia invischiati nella notte umida e fredda o ci esibisce al sole caldo del mattino, avendo sempre cura di mostrarci con stupore e meraviglia un luogo che, pur trovandosi a pochi chilometri dal centro abitato, sembra essere distante, quasi alieno. È un luogo che ingoia chi vi abita in una bolla in cui tempo e spazio restano sospesi tra il marciume quotidiano e l’eterno.
Se questo lungometraggio ha un difetto è quello di farci impantanare in un racconto di formazione e crescita inaspettato, edulcorando la suspense a colpi di carezze, baci e piccole ribellioni. La nota del giallo fluisce senza troppe frizioni come, d’altro canto, l’intera pellicola, che si lascia gustare senza troppi indugi, lasciando sul fondo certezze e riflessioni sul rapporto tra uomo e natura e sulla considerazione del diverso, a ogni livello.