Roma FF17 – A Cooler Climate: recensione del documentario di James Ivory

Il progetto, nella sezione Special Screening de La Festa del Cinema di Roma, esplora un titolo incompiuto dell'autore, una pellicola su Kabul che si collega in modo poco armonico al suo stile artistico.

A Cooler Climate è l’ultima fatica di uno dei più premiati cineasti americani ovvero James Ivory (Camera con vista, Selvaggi) che ha vinto recentemente, nel 2018, il Premio Oscar per la Miglior sceneggiatura non originale per Chiamami col tuo nome, diretto da Luca Guadagnino. Un film-maker che ha dedicato interamente la sua carriera artistica allo sperimentalismo, approcciandosi a nuove culture, come dimostra questo lungometraggio incentrato su una sua opera oramai perduta.

A Cooler Climate, infatti, vede al centro del racconto un documentario che Ivory girò nel 1960 a Kabul, in Afghanistan, ancor prima che il territorio fosse controllato dagli americani diventando la polveriera che tristemente riempie i notiziari oggigiorno. Questa intima scoperta, in realtà, si fonde con la crescita registica e narrativa dello stesso film-maker, in un rapporto che purtroppo, su schermo, non è incastrato a dovere a tal punto che sembra di assistere quasi a due progetti staccati. Il film, che non ha ancora una data di uscita ufficiale per il mercato italiano, è presente tra le proiezioni speciali della Festa del Cinema di Roma 2022.

A Cooler Climate: un viaggio culturale in un paese esotico e distante

A Cooler Climate - Cinematographe

A Cooler Climate inizia con James Ivory che, mentre rispolvera la sua vecchia casa, porta alla luce delle bobine mai pubblicate su schermo: si tratta di alcune riprese che il film-maker ha fatto in Afghanistan, a Kabul, che dovevano inizialmente confluire in un documentario rimasto incompiuto. Ecco che quindi c’è l’occasione da un lato di riscoprire il lavoro perduto del cineasta, con un focus speciale sulla cultura afghana degli anni ’60; dall’altro, in parallelo, si approfondisce lo stile artistico e la carriera di Ivory con l’influenza diretta di quel titolo anche se non è mai stato pubblicato.

Una pellicola che si muove quindi in due direzioni differenti, ma che vede come centro nevralgico l’esperienza propria dell’immersione in un mondo totalmente diverso dall’Occidente, in un Afghanistan rimasto fermo a secoli prima per usi e costumi, ma che stava piano piano incontrando trasformazioni anche piuttosto rivoluzionarie all’interno della società. Le riprese datate, unite alle memorie intime di Babur, fondatore della dinastia Moghul in India, generano fascino e senso di scoperta, trascinando gli spettatori un luogo lontanissimo che nel 1960 era ancora incontaminato, un universo distante che vedeva i turisti come barbari.

Le parole del sovrano sopracitato, a detta di molti il primo personaggio della storia che ha costruito un racconto autobiografico, per quanto sono figlie di un periodo storico totalmente diverso, sembrano avere degli echi profondi anche con il 19esimo secolo: passato e presente appaiono come la stessa cosa e Kabul diventa un posto magico rimasto quasi immutato nel tempo, un luogo selvaggio e per questo molto affascinante. In particolare la sceneggiatura vede l’alternanza di passaggi narrativi in cui Ivory racconta le sequenze che ha girato con un altro narratore che invece riporta alcuni estratti delle memorie di Babur.

Il risultato è incredibilmente affascinante e suggestivo anche se purtroppo, tenendo conto di A Cooler Climate nella sua interezza, è solo un tassello efficace di un progetto che purtroppo ha uno stile fin troppo confusionario, non sapendo tra l’altro esattamente a chi rivolgersi. Ma andiamo con ordine. L’altra parte del documentario, invece, racconta cenni fondamentali della vita di James Ivory, arrivando a spiegare le prime opere realizzate, come è nata la sua passione per l’arte e per il cinema, approfondendo infine il curioso rapporto a tre che intercorreva tra il film-maker, il produttore Ismail Merchant e la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala che hanno dato il via ad un sodalizio longevo.

A Cooler Climate: arte e vita si uniscono in una straniante convivenza

A Cooler Climate - Cinematographe

In questo caso la sceneggiatura è fondamentalmente assente perché è lo stesso autore che, attraverso le sue parole spontanee, condivide con gli spettatori la sua vita, dall’infanzia fino ad arrivare alla nascita della casa di produzione Merchant Ivory Productions. Una parte, questa biografica dedicata ad Ivory, che non solo sembra totalmente staccata dal resto del film, ma che non ha senso di esistere per come è stata concepita. Necessita obbligatoriamente, infatti, della connessione con il documentario perduto dell’Afghanistan, perché senza di esso non avrebbe valore, ma l’alchimia tra le due parti del progetto non funziona a dovere.

Un dialogo impossibile avviene in A Cooler Climate, dove si prova a conciliare arte e vita, in una coesistenza che sembra difficile e straniante. Nessun punto di contatto, nemmeno lo stesso linguaggio: come è possibile capire quando comincia una e finisce l’altra e, soprattutto, quale legante le tiene insieme? Complicato rispondere a queste domande anche perché la regia non ci aiuta per niente: in piena chiave documentaristica si limita a restaurare attimi che non ci sono più, senza però fornirci delle chiavi di lettura adeguate per comprendere la realizzazione.

Non è nemmeno chiaro a chi è rivolto nello specifico questo strano documentario, che ha l’ambizione di unire la storia della vita di un’autore con un suo progetto iniziale ancora acerbo, ma che racchiude già tutto il talento del film-maker. Probabilmente non è indirizzato a chi non conosce per niente la filmografia di Ivory e il suo rapporto peculiare con la cultura orientale, ma forse neppure agli appassionati del cineasta, che potrebbero trovare carente il film proprio nella sua parte divulgativa-documentaristica, visto che descrive ben poco della carriera dell’autore nativo di Berkeley, in California.

A Cooler Climate è un lungometraggio che sembra incompleto, ironicamente come il documentario che ha diretto James Ivory in Afghanistan nel 1960, centrale per lo sviluppo del progetto. A mancare in questa opera è proprio il punto di contatto tra il lavoro del cineasta a Kabul e la sua vita artistica che viene presentata come conseguenza di quello straordinaria viaggio in una terra desolata e lontana. Se la sceneggiatura, specialmente nella prima parte, aiuta il pubblico a immergersi in un universo congelato nel tempo con delle immagini ancora attuali, è nella seconda parte che tutto si blocca, a causa di una macchina da presa che non sa bene a chi rivolgersi.

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Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.1