Man in the Dark: recensione del film di Fede Alvarez
Correva il 2013 quando il controverso reboot de La Casa, dall’opera che negli anni ’80 introdusse al genere Sam Raimi e che ne fece indiscusso maestro, veniva presentato nelle sale di tutto il mondo, prodotto e pubblicizzato da Raimi stesso. Ed è a Fede Alvarez, giovanissimo regista che aveva alle spalle soli quattro cortometraggi conosciuti, che va riconosciuto il rischio dell’azzardata impresa.
Man in the Dark: recensione del film di Fede Alvarez
Impresa cui ora si aggiunge quella (di gran lunga più riuscita, lo diciamo subito) che risponde al nome Don’t Breathe, e che in Italia sarà conosciuta con il suggestivo – ma vagamente depistante, e sicuramente meno efficace – titolo di Man in the Dark. Dopo aver compiuto furtarelli di poco conto, tre ragazzi senza scrupoli pianificano il colpo perfetto ai danni di un uomo cieco, cercando di derubarlo di una grossa somma di denaro. Una volta entrati nella sua abitazione, tuttavia, la vittima si rivelerà tutt’altro che indifesa.
Anche chi fa parte della categoria di spettatori che hanno, a suo tempo, disdegnato il primo lungometraggio-remake di Alvarez noterà come l’esperienza Evil Dead abbia avuto un abbondante e importantissimo contributo per Man In The Dark.
Qualsiasi cosa ne dica il regista stesso, infatti – deciso nell’affermare che Man in the Dark rappresenterebbe il suo vero primo lungometraggio – è chiaro che Evil Dead costituisca invece un apparato solidissimo e imprescindibile su cui fabbricare le basi dell’ home invasion a tinte horror in cui gli occupanti diventano prede di una vittima che si fa persecutore. Propriamente raimiano è, infatti, il morboso interesse della macchina da presa per occhi sgranati e sguardi terrorizzati, mani che si dimenano in maniera convulsa, oggetti a terra che supplicano di essere afferrati e che, si sa, compariranno ancora.
Non meno raimiano è, inoltre, l’aver concepito la macchina da presa come un occhio che tutto vede anche quando lo spettatore non può vedere: un organo fluttuante da uno spazio all’altro e che si libra in piani sequenza infiniti senza mai rivelare la propria presenza come mezzo fisico (contrariamente al virtuosismo di alcuni autori che, soprattutto negli ultimi tempi e in maniera ben poco autentica, hanno voluto di proposito ostentarne ogni movimento).
Man in the Dark è un chiaro secondo capitolo di un’immaginaria serie che abbia la casa posseduta come leitmotiv
Non tanto negli sviluppi e negli snodi narrativi, quindi, quanto più nella messinscena vera e propria, Man in the Dark è un chiaro secondo capitolo di un’immaginaria serie che abbia la casa posseduta come leitmotiv: ancora una volta, l’ambiente domestico è fatalmente compromesso (in Evil Dead da un elemento interno e sovrannaturale, qui dall’esterno), è un organismo vivente e opprimente dalle quali mura si materializza il fantasma di un “uomo nel buio” che si può vedere ma non può vedere. Da qui, sicuramente, il titolo anglofono “Don’ t Breathe”: un invito a non respirare per non rivelare la propria presenza nell’unico modo in cui può essere percepita.
Man in the Dark non si fa mancare uno spietato rimprovero all’avidità e al denaro come desiderio e bisogno primario
Come nella sua prima opera, ma stavolta forte di totale libertà sul piano narrativo, Alvarez dà prova di assoluta maestria nella direzione di sequenze ritmate da inseguimenti sparsi e da spari, passi, rumori ovattati, scricchiolii fatidici che sembrano sempre provenire da un luogo che non è mai all’interno dell’inquadratura, dimostrando di sapere benissimo come incutere timore a partire dal sottratto e dal non-visto, ma non snobbando la creazione di immagini violente enfatizzate da un astuto slow-motion, caricate di tratti perversi e sottolineate da buonissime prove attoriali (prima fra tutti l’ottima scream queen Jane Levy, che già ci era piaciuta ne La Casa).
E se in Evil Dead la morale di fondo, spicciola ma funzionale, era quella della dolorosa e sanguinosa redenzione dalla droga come percorso obbligatorio, Man in the Dark non si fa mancare uno spietato rimprovero all’avidità e al denaro come desiderio e bisogno primario, che partorisce creature mostruose di cui si possono prendere le parti solo nella lotta contro un mostro peggiore, capace di orribili atrocità per difendere se stesso.