The Crown 5 e la polemica su Dominic West: troppo bello per essere Carlo?
Con Dominic West nel ruolo di Carlo, gli autori di The Crown 5 prendono una buccia di banana. Ecco perché sembra una frivolezza, ma non lo è.
Dal 9 novembre 2022 è disponibile su Netflix la quinta stagione The Crown. E noi ci consentiamo un appunto frivolo, ma solo all’apparenza: Dominic West è troppo bello e soprattutto troppo sexy per fare Carlo e, proprio per questo, la sua presenza nel cast stona con le intenzioni della serie. Occorreva, fin da subito, una presa di posizione chiara: o la mimesi o la maschera.
The Crown 5: tutti perfetti, tranne Dominic West, troppo sexy per essere il principe, ora re Carlo
Da quando, da mercoledì 9 novembre 2022, su Netflix sono apparsi gli episodi della quinta stagione di The Crown, due sono state le considerazioni più frequenti da parte dei commentatori web, addetti ai lavori e no: non c’è mai stata una Diana più Diana di Elizabeth Debicki; non c’è mai stato un Carlo meno Carlo di Dominic West. L’attore, avvicinato dagli autori della serie con l’allettante proposta di prestarsi a essere il Carlo maturo dell’epoca del tracollo coniugale e dei conseguenti scandali, in un primo momento aveva rifiutato: si sentiva di non avere nulla a che spartire con l’allora principe ereditario, ora re d’Inghilterra. Poi, però, corteggiato con maggiore insistenza, si era detto “perché no?”. Col senno di poi, quel suo “perché no?” di rimpallo si sarebbe dovuto trasformare prontamente, da domanda, in esclamazione perentoria.
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Che importa se l’attore non somiglia al personaggio che interpreta, verrebbe da chiedersi. In effetti, a volte importa; altre volte, no. In The Crown importa, perché The Crown segue un principio che, in via provvisoria, definiremo manzoniano. L’autore dei Promessi sposi riteneva che uno scrittore di fiction dovesse compensare le lacune di uno storico: se quest’ultimo è chiamato a ricostruire gli eventi rilevanti del passato da un punto di vista esteriore, il primo indaga le ricadute psicologiche, affettive o emotive che siano, in chi da quell’evento storico è stato a vario titolo, da vicino o da lontano, coinvolto.
Le cronache della seconda età elisabettiana sono ben note: i creatori di The Crown sono partiti da lì, dall’arcinoto documentato, per integrare, attraverso la fiction, la componente ignota. Hanno, cioè, immaginato quello che non era possibile sapere per via ‘scientifica’, attraverso il metodo storiografico: i sentimenti che s’agitavano negli attori – o, per essere più precisi, nei rappresentanti statici – della Storia, a porte chiuse, nelle occasioni di ritirata privata, negli intimi ricoveri, in quelle stanze letteralmente o metaforicamente lontane dallo sguardo pubblico, nei luoghi in cui potevano reciprocamente massacrarsi di punzecchiamenti passivoaggressivi oppure, in solitaria, allentare il corpetto, allungare i piedi su un divanetto basso, annegare di lacrime un cocktail prelibato.
Gli autori di The Crown hanno sposato il criterio della verosimiglianza, rifiutando la riscrittura simbolizzante. Ma per Carlo hanno fatto un’eccezione
Quando la drammaturgia segue il principio manzoniano, l’ambito d’azione drammaturgica è soggetto ai dettami della verosimiglianza e il margine d’intervento possiede una modesta ampiezza: la quinta stagione si configurava non a caso per gli autori come la più difficile anche per questo, perché la materia narrativa gravitava attorno a fatti relativamente vicini nel tempo e senz’altro radicati in un immaginario che, sospeso tra cronaca e rielaborazione fantasmatica della stessa, è ancora oggi molto vivido. Non è facile immaginare in modo inedito, drammaticamente rilevante, ciò che è stato vivisezionato di così morboso puntiglio non solo dai tabloid ma anche dalle fantasie delle persone comuni, dai loro interni moti sceneggianti.
Per restare nel territorio di una serialità che esplora le rappresentazioni del potere, prendiamo in considerazione, per un confronto, le due serie sorrentiniane The Young Pope e The New Pope. C’è, senza dubbio, una differenza eclatante: i due Papi sono personaggi di fantasia, quindi non possono essere paragonati a Elisabetta II e famiglia. Sorrentino, per scriverli, si è sì ispirato a biografie e aneddotiche di Papi esistiti o esistenti, ma nulla di più. Non è, tuttavia, questo il centro della questione.
La differenza fondamentale è che, fin dalle intenzioni, Sorrentino ha trasfigurato il dato di realtà in una costruzione simbolizzante che rende strutturalmente impossibile stabilire il confine tra verità e invenzione, perché l’invenzione non avviene per compensare ciò che non si sa ma per riscriverlo radicalmente in termini archetipici, nei codici del sogno, di un vero non più storico, bensì mitologico. Anche gli autori di The Crown avrebbero potuto abilitare i componenti della famiglia reale ad archetipi collettivi, ma hanno scelto di fare un’altra cosa. Se pensiamo a Blonde di Andrew Dominik, è indubbio che la Marylin Monroe rappresentata, un’altra icona del potere mediatico, mantiene dei rapporti di continuità e di contiguità con la Marilyn biograficamente intesa, ma anche in questo caso la scrittura non è andata a riempire vuoti di sapere, bensì a rinegoziare alle fondamenta il patto con la realtà storicamente determinata. The Crown non fa dei componenti della famiglia reale dei simboli, non se ne serve come fossero maschere, ma li riproduce mimeticamente, li rianima nello spazio sì di una finzione, ma non di un assoluto fittizio, bensì di un fittizio condizionato a ciò che è certo, a ciò che è documentato.
The Crown 5: l’assenza di avvenenza di Carlo come attrattiva drammatico-romanzesca
In questa ottica ‘inverante’, Dominic West risulta non soltanto assai poco credibile, ma anche pienamente stonato. Perché non solo non somiglia al Carlo reale, ma neppure lo evoca, per approssimazione, per inclinazione: appena proviamo a sospendere l’incredulità, ci balenano alla mente gli amplessi focosi di Noah Solloway; se ci soffermiamo sul suo muso stropicciato, da ex bad boy ripulito, da malandrino in doppiopetto, non possiamo in nessun modo, neanche con uno sforzo di volontà, sovrapporvi il goffo cipiglio dell’eterno principe ereditario. E non si tratta di una lacuna interpretativa: Dominic West è un attore eccezionale, ma semplicemente non può essere Carlo. È non tanto troppo bello, quanto soprattutto è troppo erotizzabile per poter essere lui.
Sarebbe stato invece essenziale conservare e valorizzare drammaturgicamente il dato della scarsa avvenenza – dell’unsexiness – della persona reale dietro il personaggio: il ranocchio Carlo non solo non è mai riuscito a trasformarsi in un principe da fiaba grazie al bacio della più bella delle principessa, ma non è neppure mai riuscito a farsela piacere, quella principessa bellissima sposata per dovere e non per desiderio e, coerentemente, mai desiderata perché desiderabile agli altri. Carlo ha dimostrato, con la sua vita e la sua devozione a Camilla, che l’amore è un sentimento anarchico, al di là di ogni garanzia estetica e di ogni suggestionabilità percettiva: Dominic West ha ricevuto, per grazia di natura, un fascino erotico che a Carlo è stato negato ed è proprio per questa negazione originaria che, se Carlo non è mai stato affascinante, il suo personaggio sarebbe potuto diventarlo. Non a dispetto, ma in virtù di quell’assenza di fascino, di quel deficit di sex appeal.
Se il vero Carlo ha mandato a monte ogni possibile idealizzazione della coppia principesca ed è sempre stato ritenuto responsabile della delusione provocata dall’evidenza del controidillio, e certamente la distruzione dell’immaginario è stata in parte determinata anche dalla sua inferiorità estetica nei confronti di Diana, il Carlo fittizio avrebbe dovuto muovere da quel dato, anziché correggerlo o contraffarlo. Gli autori di The Crown, forse per distrazione, forse per compiacenza nei confronti del monarca già abbastanza bastonato dalla sceneggiatura, hanno perso l’occasione di drammatizzare l’unica vera grande ‘attrattiva’ di Carlo: non tanto essere fragile, eternamente frustrato per l’attesa di un’occasione, quanto il rifiutarsi di sentirsi grato per l’amore di una moglie più di bella di lui, di scontare la scarsa avvenenza come un handicap, una colpa, una ferita narcisistica, un danno irreparabile. Un ostacolo ad amare o a rappresentare l’amore. Carlo ci ha insegnato, indirettamente, a decostruire le nostre mitologie erotiche, a riportarle a un piano più terra terra, a sottrarle al conformismo estetico. È un peccato che, nella writers room di The Crown, non se ne siano resi conto.