Venezia 73 – I Called Him Morgan: recensione del film di Kasper Collin
Narrare un rapporto conflittuale attraverso un minuzioso documentario; Kasper Collin – all’attivo già con My Name is Albert Ayler – si focalizza sulla figura del “focoso” trombettista afroamericano Lee Morgan, e sulla sua tragica uccisione per mano dalla sua convivente Helen. Con I Called Him Morgan il regista mostra con esaustiva schiettezza, le reazioni degli altri musicisti scaturite dalla tragica uccisione del talentuoso artista di Philadelphia, senza tralasciare questo morboso rapporto d’amore e odio instaurato fra il trombettista e la sua paranoica spasimante.
Lee Morgan, un artista che richiamava a sé molti estimatori, comportando a vere e proprie platee gremite; un uomo passionale, reduce da una grave dipendenza da eroina, che con il suo talento incentivò enormemente il mondo del jazz attraverso i suoi celebri concerti tenuti allo Slug – il celebre night-club in cui il povero artista venne ucciso – divenuti dei veri e propri “must-see” per tutti coloro che lo apprezzavano.
Perché Helen Morgan commise quel folle gesto?
Una domanda alla quale Kasper Collin non pretende una risposta diretta ma che almeno implicitamente sfiora; un gesto così ingiustificato per il quale una spiegazione plausibile poteva darla solo e soltanto la diretta interessata. Helen Morgan More dopo la tragedia – e dopo aver scontato la pena – divenne un’assidua frequentatrice della chiesa Metodista , espiando le sue colpe e i suoi rimorsi ed estraniandosi completamente dal resto del mondo. Tra la gente che la conosceva serpeggiava ancora livore nei suoi confronti; quel ricordo macabro volente o nolente aleggiava ancora fra i più rinomati night club newyorkesi.
Un ricordo così rude che influenzò notevolmente tutto il mondo del jazz che conosceva ma soprattutto apprezzava Lee Morgan. I Called Him Morgan ha la capacità di incidere ed appassionare lo spettatore attraverso questi poderosi approfondimenti documentaristici; ritrarre una macabra storia sospesa fra sublime arte musicale e paranoico rapporto coniugale, attraverso una valida tecnica di montaggio. Kasper Collin con destrezza rende empatico questo suo documentario, cercando di far provare allo spettatore lo stesso sgomento “testimoniato” dai vari musicisti nella pellicola.
Un lavoro durato 7 anni
Per realizzare e definire nella maniera più oculata possibile tale lavoro, Kasper Collin c’ha impiegato ben 7 lunghi anni. Indirettamente con I Called Him Morgan il regista svedese esegue una sorta di “venerazione” per questa forma espressiva musicale intrisa in una macabra storia fatta di sangue e gelosia. I Called Him Morgan va annoverato come un lavoro documentaristico non propriamente convenzionale; nonostante la sua classica andatura riesce a differirsi, grazie a questa sorta di personalizzazione che Collin attua per tutta la durata del film , cercando di marcare fortemente quel complesso di stati d’animo provati dai personaggi coinvolti nel documentario.
Un osanna – come ribadito anche prima – che il regista svedese compie al jazz e alla sua interezza. Sullo sfondo, la figura di questo giovane artista stroncato quasi sul nascere, impedendogli quella giusta e doverosa consacrazione nel panorama jazzistico americano. Questo insano rapporto sentimentale di questa coppia, con Helen salvatrice e carnefice allo stesso tempo di Lee. “Una lettera d’amore a due controverse personalità” sviluppata e messa su pellicola, condividendola universalmente.
I Called Him Morgan è stato selezionato per il programma principale – fuori concorso – alla 73ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Diretto e prodotto da Kasper Collin in collaborazione con Ron Mann e Nicole Stott.