The Menu: analisi e spiegazione del film
Cerchiamo di esaminare The Menu, la perfetta esecuzione di Mark Mylod, ma attenti agli SPOILER!
Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei. Dimmi dove mangi e ti dirò come morirai. Potrebbe essere l’immaginario slogan di The Menu, il film di Mark Mylod in cui il cibo si fa portavoce di una critica sociale, nonché mezzo attraverso il quale selezionare una determinata tipologia di persone.
Nel ristorante stellato del maniacale chef Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, animali e vegetali trascendono le semplici logiche del nutrimento per divenire snodi di una filosofia di vita e arte in cui fluisce un rivolo di sangue e morte capace di legare indissolubilmente le pietanze servite ai commensali.
Il cibo cessa esplicitamente di essere un mero nutrimento per il corpo, talvolta eclissandosi totalmente, per essere un punto di partenza grazie al quale leggere le personalità di ogni ospite. In tale eccezione, il modo in cui si mangia è il filtro applicato dallo chef per far sputare fuori a ogni individuo la vera essenza di cui sono fatti.
The Menu: la vendetta di Mark Mylod contro i ricchi
Così facendo, il regista Mark Mylod assassina ipoteticamente la classe ricca della società, crocifiggendola con i chiodi delle loro stesse pretese, in un’ascesi che progressivamente li appiccica ulteriormente alla loro becera esistenza, privandoli del beneficio dei sensi.
Dopotutto in The Menu coesistono due mondi (o forse più). C’è chi brama di sedere alla tavola dello chef, di far parte di quella casta privilegiata, e chi non concepisce quell’idolatria, preferendo un classico e quasi scontato cheeseburger. Il corridoio che separa queste due specie umane potrebbe essere molto stretto, dal momento che il cibo è contaminazione nella sua forma più esagerata. Ogni alimento trasformato si fa carico di una storia, di una tradizione, di una filosofia artistica che dà slancio alla ricetta in questione, facendole fare il mortale salto di qualità dal basilare nutrimento alla contemplazione.
In The Menu l’alta cucina diventa l’olimpo di broker, registi, critici gastronomici o imprenditori di vario genere. Si tratta di persone che possono permettersi di andare ad Hawthorne, da Julian Slowik, solo perché ricche ma, a parte i soldi, non possiedono nient’altro. L’autore della black comedy tiene a sottolineare l’aridità delle loro esistenze alzando il volume delle loro conversazioni e concentrando l’attenzione che esse ripongono nel denaro, come se con quello potessero davvero comprare qualsiasi cosa. Basta però grattare la superficie della loro personalità per far tornare a galla incontri extraconiugali, ruberie o cattiverie gratuite.
Alla luce di ciò tutta l’impalcatura scenica di un ristorante stellato, posto su un’isola lontana dal mondo esterno, in cui l’unico obiettivo della brigata è quello di deliziare i palati degli ospiti, si fa altare in cui sacrificare la vita stessa. Tutti gli chef prendono ordini dal personaggio di Ralph Fiennes, sottomettendosi ciecamente al suo volere e assecondando i ritmi dell’isola; una terra che produce e dona secondo degli schemi ben definiti, ma non scontati. Lo chef impartisce il rispetto per ogni animale sacrificato e, quasi come a risarcirlo della vita rubata per gratificare chi di fatto non nota neanche la differenza tra un nasello e un halibut maculato, decide di sacrificare chi mangia, in un estremo atto di sacra purificazione.
La cucina diventa la scena del delitto e ogni portata, in The Menu, è un colpo di scena
Cos’è, in fondo, la cucina, se non un patibolo? “Raccogliamo, fermentiamo, gelifichiamo”, dice la responsabile di sala interpretata da Hong Chau: un ciclo continuo di azioni e nozioni che si amalgama all’idea di un mancato rispetto per ciò che si consuma; mancato rispetto per l’animale sacrificato per la realizzazione del piatto e mancato rispetto anche per chi quel piatto lo ha realizzato.
“Vi prego, non mangiate” è, non a caso, la supplica che fa lo chef ai suoi commensali: un controsenso che appare inammissibile almeno quanto la provocazione di privarli del pane durante la consumazione di un pasto che avrebbe richiesto l’ausilio dello stesso. La spiegazione, a tal proposito, è disarmante. Il pane infatti è quell’alimento che esiste, in svariate forme, da diversi millenni, immancabile anche tra i poveri, tra le persone più comuni. Perché allora sottrarlo a chi può avere anche molto più del fabbisogno di base? È un privilegio che viaggia contromano, annullando la semplicità e iperbolizzando il superfluo, sottolineando così quanto si inaridisca persino un piatto stellato dinnanzi alla mancanza di un alimento povero che, come se non bastasse, è stato debitamente preparato ma non servito.
È chiaro come ogni portata sia un colpo di scena, uno spiraglio verso mete cinematografiche differenti, nonché un progressivo innalzamento verso la follia. L’illusione, la scomposizione e la fantasia regnano ovviamente sovrane in molte cucine d’alto livello, ma in The Menu si amplificano progressivamente in una spirale che parte dall’aromaticità vegetale del limone – l’amuse-bouche servita sulla barca che va verso l’isola privata è un’ostrica fatta con caviale di limone e ispirata a un piatto dello chef (reale) Thomas Keller – fino ad approdare a un piatto in cui si “mangia l’isola” (ideato dallo chef Dominique Crenn) e ancora a uno in cui lo chef conficca una forbice in una coscia di pollo, titolando la pietanza Memoria e spiegando il crudele episodio della sua infanzia, quello in cui conficcò l’arma nella coscia del padre per difendere la madre.
È da questo frangente in poi che la situazione degenera, proseguendo col Massacro, un piatto che è una rappresentazione teatrale e tremendamente reale in cui lo chef Jeremy si spara in bocca dopo aver ammesso di non poter mai raggiungere gli stessi livelli del suo mentore. A seguire, La follia dell’uomo include un colpo inferto allo chef Julian Slowik da una ragazza della brigata, con conseguente fuga di tutti i membri di sesso maschile. Una scena, quest’ultima, che ha tutta l’aria di finire in maniera pessima, mentre raggiunge l’acme nel servizio fatto all’interno del capanno (galline e uova stanno sullo sfondo) in cui si è nascosto l’ultimo cliente catturato, a cui viene servito un uovo con crème fraîche e sciroppo d’acero.
Morire con chi dà o morire con chi toglie?
Ci sono due mondi, dicevamo, in The Menu, uno è artificioso e in cerca della spettacolarità, l’altro invece tenta solo di sopravvivere. Se il primo è rappresentato dalla maggior parte, il secondo si incarna pressoché nel personaggio di Margot (Anya Taylor-Joy), unica meritevole superstite. La sua estraneità a quel mondo di ricchi è sottolineata dal fatto che, a differenza dell’uomo che sta accompagnando (Tyler, interpretato da Nicholas Hoult), il quale è dannatamente in visibilio per lo chef e va in paranoia a ogni suo cenno, lei non mangia praticamente nulla, trovando ridicola tutta quella messa in scena e dando così uno schiaffo morale al protagonista.
Margot è una che “spala nella merda”, fa parte degli ultimi, si trova in quel luogo sotto mentite spoglie e questo lo chef e la sua brigata lo sanno, ma non c’è un modo per salvarsi, poiché alla fine dovranno morire tutti, c’è da fare solo una scelta: morire con chi dà o perire con chi toglie.
Perché Margot si salva? La filosofia del cheesburger
E alla fine, se Margot si salva, è perché dimostra di riuscire a dare qualcosa che fino a quel momento (o per molto tempo) lo chef non aveva ricevuto: la gratificazione e la verità. Il suo cibo a lei non piace, ma non per caso chiederà un cheeseburger, che è cibo comune, tradizionalmente americano, nonché un ponte di collegamento con le origini della sua carriera (lo nota addentrandosi nel suo appartamento). Margot restituisce a Julian il piacere di cucinare, di servire qualcuno che, pur non potendo permettersi che una spesa di 9.95 dollari, assapora con educazione e goduria, rispettando ogni ingrediente al suo interno e, anzi, esigendolo a una certa maniera: aglio ondulato, formaggio americano che si scioglie senza volumi, patatine fritte. Quel cheeseburger non rappresenta solo la normalità di chi obiettivamente non potrebbe mai permettersi di spendere cifre da capogiro per una cena, bensì anche la consapevolezza genuina di chi addenta la vita con voracità, senza rimanere in balia delle scelte altrui, senza omologarsi alle convenzioni imposte.
Chi è Margot, in fondo? Una prostituta, forse un’arrampicatrice sociale, una che viene dal basso, che sa cosa vuol dire non avere nulla; una su cui il fascino della teatralità per cui quella gente ricca è disposta a pagare non fa presa.
Con lei il cibo riacquista dignità anche nel momento stesso in cui chiede un cestino affinché possa consumarlo una prossima volta, dunque senza sprecarlo.
Il resto dei commensali, di fatto, resta in balia della follia dello chef e non si accorge nemmeno della differenza che intercorre tra realtà e finzione (alla prima uccisione applaudisce la perfetta interpretazione), per loro la vita è un perenne passaggio da un evento all’altro in cui, all’esagerazione della proposta, non corrisponde la giusta attenzione sensoriale. I ricchi mangiano bene solo finché spendono, poiché la spesa gli dà la consapevolezza che stanno mangiando la cosa giusta. La gente normale come Margot, invece, mangia e vive con tutti i sensi accesi.
Questo è, in fondo, il divario che si crea tra ricchi e poveri, in un contrasto esagerato privo di un istmo di terra – seppur argillosa – in grado di collegare questi due mondi. Il regista, che si affida alla sceneggiatura di Seth Reiss e Will Tracy, demolisce totalmente la classe più alta della società e per farlo non mette in scena il palese e disagevole contrasto tra chi ha troppo e chi non ha nulla, non crea paragoni lampanti, poiché tutto ciò che vediamo alternarsi sul grande schermo sono portate da gastronomia molecolare, nouvelle cuisine e vini pregiati. Il fatto che quegli ambienti siano frequentati da un’élite di privilegiati e che esercitino un certo fascino nei confronti del popolo è pressoché scontato. Ciò che il film vuole è fare un ritratto dei ricchi, farceli odiare profondamente, portarci dalla parte del cattivo di turno, che in fondo un vero villain non è.
La frustrazione dello chef Julian Slowik
Lo chef Julian Slowik ha trovato in quella gente il suo capro espiatorio. Ha una mente disturbata e una biografia intrisa di problemi (la madre accomodata in sala, dipendente dall’alcol, ne è la conferma), come tutti i geni. Alla fin fine è una sorta di despota che spinge tutti coloro che lo circondano a venerarlo e in quella sera elimina fisicamente chi vorrebbe emularlo e chi invece lo possiede economicamente. E nonostante ciò non è ancora libero. A tenerlo inchiodato è il suo malessere, l’idea di dover rispondere alla perfezione richiesta dall’ambiente che lui stesso ha creato, in cui il burnout è vietato. Julian ha trasformato la cucina, evidente regno in cui esprimere se stesso, proclamarsi indipendente e farsi accettare dalla società, in una prigione fatta di regole ferree in cui tecnicamente dovrebbe essere lui il padrone di casa, ma manca di accoglienza, che è la base della ristorazione. I clienti non si sentono coccolati ma segregati, quel battito di mani che annuncia l’arrivo di una nuova portata diviene assordante quanto una marcia di guerra e anche sul suo volto, di fatto, manca la gioia.
La morte scorre senza tregua in tutte le portate che serve, non solo perché esseri viventi di mare e terra vengono sacrificati per essere cucinati, ma proprio per il modo stesso in cui vengono serviti.
“Gli chef giocano con la materia grezza della vita stessa e della morte stessa. È arte sull’orlo dell’abisso“, dichiara Tyler a una distratta Margot, anticipando il perverso gioco a cui Julian sottoporrà tutti.
Non è un caso se le pietanze che serve, nonostante siano talvolta così striminzite, risultano essere tremendamente ingombranti. La magia e la maestria di cui sono intrise vengono percepite solo dall’eccitazione di Tyler e dalla sua apparentemente capillare conoscenza di ingredienti e metodi di preparazione.
Quell’hamburger così scontato, invece, e anche così grande rispetto al resto, diventa metafora della leggerezza e della gioia primordiale, ricordando a Julien il motivo per cui fa quel lavoro: nutrire col cibo ed essere a sua volta nutrito con la gratitudine. Per tale ragione Margot si salva. Si salva quando smette di recitare la parte per cui è stata pagata (quella della fidanzata di Tyler) e per farsi ascoltare non ricorre al turpiloquio ma, semplicemente ed elegantemente, batte le mani allo stesso modo dello chef. La ragazza crea così un ponte tra la sua vera essenza e quella dello chef, nient’altro.
Il resto dei clienti, invece, è destinato a perire e, se ci si fa caso, non ha mai avuto intenzione di salvarsi la pelle. Se Tyler si toglie la vita impiccandosi con la cravatta, anche gli altri non fanno praticamente nulla se non aspettare che qualcuno venga a soccorrerli. Ma perché dovrebbe accadere? Perché sono ricchi e possono comprare tutto. Peccato che allo chef i loro soldi non interessino e nel rifiutarli vuole far comprendere loro esattamente questo: il denaro è carta straccia quando non c’è la basilare volontà di sopravvivere. Ad acuire la situazione e a inibire la loro volontà è altresì la consapevolezza di essere rovinati: le loro vite perfette si reggono sugli stuzzicadenti, su degli imbrogli che Julian ha smascherato e spiattellato senza remore. Uscire da lì senza soluzione alcuna per essere riabilitati nella società che conta corrisponde di fatto a morire, poiché tutta questa gente non è in grado di affrontare la vita, ma solo di comprare.
Come finisce The Menu?
Il modo in cui tutti i commensali muoiono, che sigla la conclusione di The Menu, è pazzesco! Dopo aver servito prelibatezze e aver terrorizzato i suoi clienti, lo chef li rende partecipi della loro morte facendogli indossare delle mantelline di marshmallow e cospargendogli il capo di cioccolata e, mentre la brigata cosparge il pavimento di biscotti sbriciolati e altri ingredienti utili a comporre uno s’more, lo chef Julian Slowik filosofeggia sul rogo che sta per compiere, paragonando la loro morte a quella dei martiri ed elencando tutti gli ingredienti utili a preparare quel dolce tipicamente americano, rappresentazione di innocenza. Lo s’more, infatti, che si dice essere stato inventato nel 1927 durante un campeggio scout, è il dolce della tenera età, fatto con ingredienti industriali e a basso costo. Fondendo i marshmallow alla cioccolata si ottiene la farcia da incastrare tra due biscotti di grano: una goduria da plebe, nonché un addio cinico e sarcastico a commensali che per un dolce avrebbero speso molto, ma molto, di più e che, in ogni caso, pagano fino all’ultimo centesimo il costo di quella cena che li ridurrà in cenere.
Margot, nel mentre, è fuggita su una barca che va in avaria e, mentre l’isola viene divorata dalla fiamme, addenta ciò che resta del suo cheesburger.