Close: recensione del film di Lukas Dhont premiato a Cannes
Uno splendido e intimo legame tra due giovani, che la società prova a disfare. Close, regia di Lukas Dhont, arriva nelle sale italiane il 4 gennaio 2023.
Quello di Lukas Dhont, sintesi azzardata ma non del tutto fuori posto, è un cinema della liberazione, l’affrancamento di identità soffocate da condizionamenti esterni e turbolenze spirituali (interne). Vale anche, con tutti i suoi limiti e qualche punto di forza, per Close, il secondo film del regista e sceneggiatore belga, presentato in concorso al 75° Festival di Cannes dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria. Nelle sale italiane dal 4 gennaio 2023, per una distribuzione Lucky Red. Se il senso del precedente Girl (2018) era il racconto di un’identità costruita partendo dal segno visibile, dall’esteriorità, dal corpo, qui invece, nel cast Eden Dambrine, Gustav de Waele, Émilie Dequenne, Léa Drucker, i corpi sono a posto, nel senso che non c’è nulla che la società abbia da dire al riguardo; l’oggetto del contendere è più sotterraneo, sfumato, impalpabile. Un legame bellissimo e molto forte, senza nome perché non se ne avverte il bisogno. I problemi cominciano proprio a questo punto.
Close: il legame bellissimo tra due ragazzi e le parole sbagliate della società
Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav de Waele) hanno tredici anni e corrono senza pensieri. Amici, con tenerezza e molto affetto, fratelli, per scelta e non perché lo dice il sangue, si completano d’istinto. Sono insieme nei momenti dell’azione e della riflessione, insieme nelle parole e nei silenzi. Le cose cominciano a guastarsi con l’inizio dell’anno scolastico. Le maliziose insinuazioni dei compagni, parte tutto dalla curiosità indiscreta di un gruppo di ragazze, mettono in discussione la natura del loro rapporto.
Qualunque cosa significhi il legame di Léo e Rémi, un sentimento più profondo di una semplice amicizia o una fraternità tenace, non è, non dovrebbe costituire, un problema per nessuno. Eppure un problema finisce per diventarlo, almeno agli occhi della maggior parte dei ragazzi e delle ragazze della scuola e questa è una delle verità più scomode di Close. Perché nell’immaginario di questi nostri tempi auspicabilmente più aperti e inclusivi, la costruzione di un’identità, sessuale ma non solo, libera da pregiudizi e ottusità, dovrebbe essere, se non una pratica di routine, quasi.
Non è così, ovviamente, da nessuna parte. La regia di Lukas Dhont amaramente conferma, illuminando una verità paradossale, perché sono proprio i più giovani, teoricamente la classe anagrafica più in sintonia con la modernità di certi discorsi, a proporre visioni del mondo stereotipate e francamente indifendibili. Dei due, Léo è il più intraprendente e reagisce alle pressioni conformiste adattandosi alla meglio, dandosi all’hockey, abbracciando lo status quo mascolino e virile, mentre il riflessivo Rémi sceglie una via più malinconica e introversa. A poco vale il calore e la presenza rassicurante di Nathalie (Léa Drucker) e Sophie (Émilie Dequenne), che da madri di Léo e Rémi possono ma fino a un certo punto. Close non fa sconti. E se è chiaro che qualcosa si è rotto, tra i due ragazzi, difficilmente potrà ricomporsi e tornare esattamente come prima.
Un’intimità rovinata, l’amara verità di un coming of age sensibile e con due bravi protagonisti
Un’intimità guastata dalla stupidità del mondo. La prima cosa azzeccata che fa Lukas Dhont con Close è di scegliere la coppia giusta di protagonisti. Il timido Gustav de Waele e il più rumoroso Eden Dambrine portano in dote al film una grazia tenera e non sentimentale, una disponibilità allo stupore e il ritratto di una vulnerabilità senza retorica. Vulnerabili, i due giovani, perché vivono il loro rapporto senza bisogno di mediazioni, la loro comunicazione è infatti essenzialmente un linguaggio del corpo che va oltre le parole e si appoggia ad altro. Al silenzio, alla musica, alle lacrime, alla forza plastica di corpi che corrono e lottano. Resistono finché le sirene conformiste della società non si fanno sentire, poi sono costretti a scendere a compromessi.
Close è anche la storia di un duello a distanza tra la campagna e la città. L’una, incarnazione di una spontaneità del vivere e di una piena sintonia con i propri desideri; ovvia vicinanza e un rapporto più armonico con la natura, cortesia di una fotografia di toni caldi e pastosi. L’altra, la morale sociale, tabù e cattive abitudini, un’estetica fredda e meno accogliente. La morale della favola è un promemoria sgradito ma necessario: costruire un’identità, qui l’orientamento sessuale è una parte, non la totalità del discorso, è possibile ma non si pensi a un lineare tragitto dal punto a al punto b. Qualcosa si perde sempre.
Quello i protagonisti di Close perdono è il privilegio di una bellissima intimità, condannata per il fatto di rompere con le regole della società nel momento in cui sceglie, per esprimersi, una lingua che rifiuta la convenzionalità delle parole, dei codici di comportamento prestampati e delle regole polverose. Lukas Dhont fa del suo secondo film un ragionato contrappunto al primo. Entrambi racconti di formazione (coming of age) disseminati di ostacoli, ma dove il primo costruiva la sua identità lavorando di fino sul corpo, qui la battaglia è intima. Sensibile ma non morboso, poetico ma non sentimentalista, Close è un altro solido mattoncino verso la costruzione di un’autentica visione d’autore.