Quando Dio imparò a scrivere: recensione del thriller Netflix
Dal regista catalano Oriol Paulo, già autore di Contratiempo, un nuovo thriller ad alta tensione che esplora i labirinti intricati della mente umana. Dal 9 dicembre 2022 su Netflix.
Che Oriol Paulo maneggi come pochi altri registi della nuova leva il thriller e i meccanismi che lo regolano e lo innescano è ormai assodato. Lo dimostrano i lavori per la tv e il cinema da lui firmati anche nelle vesti di sceneggiatore, tra cui El cuerpo, Contratiempo (dal quale Stefano Mordini ha tratto nel 2019 il remake dal titolo Il testimone invisibile) e la serie Suburbia Killer. Lo ribadisce ulteriormente la sua ultima fatica dietro la macchina da presa Quando Dio imparò a scrivere, rilasciata su Netflix il 9 dicembre 2022 dopo che questa è stata presentata lo scorso settembre alla 70° San Sebastián International Film Festival e si è guadagnata ben sei candidature ai Premi Goya, tra cui quella per la migliore attrice protagonista andata a Bárbara Lennie.
Una nomination meritatissima, per la quale dovremo attendere però il prossimo 11 febbraio per vedere se si tramuterà in una statuetta oppure no. Nel frattempo gli abbonati alla piattaforma a stelle e strisce potranno godersi la sua straordinaria interpretazione in una pellicola per la quale rappresenta senza ombra di dubbio un valore aggiunto. Del resto, non scopriamo di certo oggi la sua grande bravura e le qualità attoriali che la contraddistinguono, messe a disposizione in questa occasione così come nei personaggi che le sono stati affidati in passato, a cominciare da quelli in Il Regno e Magical Girl tanto per citarne qualcuno.
La potentissima interpretazione di Bárbara Lennie, candidata come migliore attrice protagonista ai Premi Goya 2023, è uno dei valori aggiunti di Quando Dio imparò a scrivere
In Quando Dio imparò a scrivere attrice madrilena regala un’altra potentissima performance, facendo suo un personaggio scivoloso e complesso, come complesso e scivoloso è l’opera che la vede protagonista. La Lennie si cala nei panni scomodi di Alice Gould, una donna estremamente benestante, con alle spalle una bella vita, un marito affascinante e che per mestiere fa l’investigatrice privata. Ed è proprio per portare a termine delle indagini che si fa ricoverare, di sua spontanea volontà, in un manicomio per fare luce su un omicidio avvenuto nella struttura. Le cose, però, si riveleranno molto più complicate di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare quando nessuno, compreso il marito e chi l’ha ingaggiata, decideranno di non confermare la sua copertura e i reali motivi che l’hanno portata a internarsi. Ecco allora che inizia a lottare su due fronti: da una parte la ricerca della verità sull’omicidio e dall’altra il tentativo di dimostrare la sua sanità mentale. Su questi due binari che da paralleli diventano ben presto convergenti si snoda il racconto al centro Quando Dio imparò a scrivere, un racconto che per giungere a conclusione avrà bisogno della bellezza di 155 minuti in cui accade davvero di tutto.
Un thriller psicologico ad alta tensione che gioca al gatto e al topo con i personaggi e gli spettatori
Il risultato è un thriller psicologico ad alta tensione che gioca al gatto e al topo con i personaggi e gli spettatori. Entrambi vengono risucchiati da una ragnatela fittissima della quale solo negli ultimissimi minuti si potrà intravedere il bando della matassa, o almeno qualcosa che gli assomiglia, poiché non è detto che si avranno tutte le risposte del e al caso. Ma questo lo lasciamo alla visione di un film capace di tenere sempre alta la tensione nonostante la lunghezza che riteniamo comunque eccessiva rispetto alle reali esigenze del plot. Per farlo costruisce una intricata rete di inganni, bugie, depistaggi e capovolgimenti di fronte che non fa mai pendere la bilancia né da una parte né dall’altra, tanto da creare un dubbio persistente su chi sia il reale depositario della verità. Si arriva a dubitare persino della protagonista, delle sue parole e delle sue ragioni, tanto da metterle in discussione in più di un’occasione. Sta in questa ambiguità che non consente di prendere una posizione e nella capacità di spingere a dubitare di tutto e tutti, come dovrebbe essere per ogni un buon thriller che si rispetti, i punti di forza del film. Ma non è tutta farina del sacco della scrittura di Oriol Paulo e del suo co-sceneggiatore Guillem Clua, ma in primis della matrice dalla quale tutto ha preso forma e sostanza, vale a dire il romanzo di Torcuato Luca de Tena, del quale Quando Dio imparò a scrivere è la trasposizione cinematografica.
In Quando Dio imparò a scrivere si dubita di tutto e tutti perché realtà e menzogna, sanità mentale e follia, coesistono e si muovono a braccetto
L’opera letteraria dello scrittore spagnolo, ambientata negli anni Settanta, si è dimostrata un’ottima base sulla quale contare per dare vita a un film che mescola senza soluzione di continuità crime e mistery per indagare nel mondo oscuro delle patologie oligofreniche, meglio conosciute come malattie mentali. La trasposizione ci scaraventa, come a suo tempo era stato per lo Shutter Island di Martin Scorsese con il quale ha molti punti in comune e analogie, in un luogo dove per natura realtà e menzogna, sanità mentale e follia, coesistono e si muovono a braccetto. Ed è qui che si gettano le basi e si sviluppano le dinamiche di un racconto nel quale diventa praticamente impossibile stabilire quando si è nel territorio della verità o in quello della menzogna. Bisogna prestare sempre moltissima attenzione perché solo microscopici e sfuggenti dettagli sapientemente collocati nella scena di turno possono indicare dove ci si trova. La chiave sta nella capacità dello spettatori nel saperli cogliere di volta in volta. È questo gioco perverso che si viene a creare tra il film e il fruitore che garantisce al risultato un livello molto alto di coinvolgimento attivo, con i personaggi che non sono altro che pedine di una partita a scacchi e chi sta dall’altra parte dello schermo degli ignari spettatori.