Makanai: recensione della serie di Hirokazu Kore’eda
Ammantato di un fascino poetico e d'altri tempi, Makanai esplora i rapporti fra diverse generazioni di donne, osservandone l'evoluzione.
Tratta dal manga Kiyo in Kyoto, Makanai è la nuova serie Netflix cui ha deciso di dare vita (tra gli altri) anche il pluripremiato regista Hirokazu Kore’eda. Come il fumetto da cui prende piede, la trasposizione seriale racconta di Kiyo e Sumire, due sedicenni aspiranti geishe, che si trasferiscono a Kyoto per imparare la tradizionale professione. Durante le lezioni di musica, canto e danza come nelle più tradizionali delle istituzioni, ben presto risulta evidente che Sumire ha uno spiccato talento per quest’arte e, avendo sempre sognato di intraprendere questa strada, prosegue a passo spedito verso il compimento del suo desiderio. Kiyo, al contrario, si dimostra subito a un livello molto distante da quello della sua inseparabile amica, tanto che viene scelta come makanai, vale a dire come cuoca della scuola, un ruolo che rispecchia decisamente di più le sue capacità e inclinazioni personali. Il racconto dei nove episodi che compongono la prima stagione accompagna un anno all’interno della yakata (la scuola) districandosi tra le dinamiche che le diverse generazioni di donne intrecciano l’una con l’altra. Ammantato di un fascino poetico e d’altri tempi, Makanai esplora i rapporti di queste ancestrali istituzioni con massimo rispetto e senza interferire, bensí solo osservandone l’evoluzione riflessa sui volti di Kiyo, Sumire e delle altre protagoniste.
Insieme a Megumi Tsuno, Hiroshi Okuyama e Takuma Sato, Hirokazu Kore’eda firma la regia di Makanai, contribuendo anche alla stesura della sceneggiatura che, in buona parte, resta fedele al manga da cui è tratta (il cui titolo completo è Makanai: Cooking for the Maiko house). In linea con le altre opere del cleebre regista nipponico, questa serie ricerca un’infinita poesia nei gesti quotidiani, promuovendo l’idea di una ricchezza nascosta nel mondo che ci circonda che solo i tempi rarefatti dell’arte filmica riescono a esaltare. L’incedere lento e pensoso degli episodi spinge, quasi costringe a dire il vero, a riflettere su ogni evento o sull’assenza degli eventi, cercandone la soluzione e le conseguenze nella sensibilità interiore di ognuno. Negando costantemente a tutti i personaggi di esplodere in dimostrazioni plateali, Makanai non nega le emozioni, piuttosto cerca di esporre come queste vengano elaborate sia dalla singola protagonista che dal gruppo sociale in cui si muove; infatti, se è vero che Kiyo e Sumire sono i motori principali della narrazione, è la dimensione corale a prendere il sopravvento, descrivendo un gruppo coeso negli intenti eppure fortemente eterogeneo per carattere e prospettive sulla vita. Kore’eda e colleghi non si negano, inoltre, una vena ironica che attraversa tutti gli episodi, a partire dall’iniziale test sull’intonazione da dare al saluto che vede Sumire eccellere mentre Kiyo provoca forte perplessità nell’insegnante, la quale non manca di rispondere con gesti ed espressioni quasi caricaturali, fino alle riedizioni “casalinghe” di grandi successi cinematografici.
Su questo sfondo, Makanai finisce con l’esaltare la figura di Kiyo che, di tutti i personaggi, è quello che trova maggiore realizzazione nel restare nell’ombra, dietro le quinte rispetto alla sua amica d’infanzia, e che si fa carico di una prospettiva sul gruppo di donne diversa da quella dominante, spesso imposta dalle più anziane. In linea con il filone ironico e surreale che resta sempre presente, Kiyo diventa emblema di purezza, ingenuità e delicatezza, ma anche di forza promotrice del successo altrui, guidata da un’ammirazione pure che porta all’esaltazione del suo stesso personaggio, anziché farla soccombere come ci si potrebbe aspettare. Kore’eda firma insomma un’altra delle sue poesie sospese nel tempo, con una serie fortemente legata a luoghi e tradizioni, ma capace di mostrare sullo schermo sentimenti ed espressioni universali.