Marco Bellocchio: 6 cose che (forse) non sai sul regista italiano
Premiato come miglior regista ai David di Donatello, il regista sarà presto al cinema col suo ultimo film
Un far cinema impegnato, non conforme, veicolo critico contro una società spropositatamente istituzionalizzata; dal 1965 Marco Bellocchio esalta la forza dello schermo alimentato unicamente dalla macchina da presa e da una palpabile urgenza di comunicare i propri dubbi, le proprie perplessità. Dallo stupefacente esordio, arrivato a 26 anni, de I pugni in tasca, il regista non ha più avuto intenzione di fermarsi, portando avanti un tipo di narrativa capace di approcciarsi al reale e al finzionistico ricercando una freschezza costante, un continuo mettersi in gioco. A distanza di quasi 60 anni, Bellocchio è oggi una delle punte di diamante, probabilmente la più luminosa, dell’arte cinefila nostrana, un agglomerato di esperienza e sensibilità, di determinazione e sana follia che, mentre continua a raccogliere convinti consensi e riconoscimenti per Esterno notte, vincitore del David di Donatello per la miglior regia, il miglior trucco, il miglior montaggio e il miglior attore protagonista (Fabrizio Gifuni), si prepara a presentare al Festival di Cannes il suo ultimo film, Rapito, che verrà poi distribuito al cinema a partire dal 25 maggio. Ma andiamo a scoprire alcune delle curiosità su un cineasta di cui non possiamo far altro che essere orgogliosi.
Leggi anche Rapito: trailer e data d’uscita del nuovo film di Marco Bellocchio
1. Il percorso di avvicinamento al cinema
Nato nel 1939, in giovane età Bellocchio frequenta la scuola salesiana, crescendo quindi con un’educazione d’impronta fortemente cattolica. Già in questi anni si appassiona al cinema e dopo aver girato alcuni cortometraggi amatoriali, nel 1959, all’età di 20 anni, decide di interrompere gli studi di filosofia, presso l’Università Cattolica di Milano, per trasferirsi a Roma e frequentare il Centro sperimentale di cinematografia e per poi proseguire i propri studi a Londra, presso la Slade School of Fine Arts.
2. Marco Bellocchio: un regista da festival
Come detto in precedenza l’esordio vero e proprio arriva nel 1965 con I pugni in tasca, che dopo essere stato rifiutato dalla selezione del Festival di Venezia, viene insignito della Vela d’Argento al Festival di Locarno per la miglior regia e di un Nastro d’argento per il miglior soggetto. Presentato al Festival di Venezia e vincitore del Gran premio della giuria è, invece, il film successivo del regista: La Cina è vicina. Dopo diversi anni e altrettanti successi arriva poi, nel 1991, l’Orso d’argento al Festival internazionale del cinema di Berlino per La condanna, mentre il 1999 è l’anno in cui, al Festival di Mosca, viene premiato per il suo importante contributo alla settima arte. 2011 e 2021 sono invece le volte di Venezia e di Cannes, che gli conferiscono, rispettivamente, il Leone d’oro alla carriera e la Palma d’oro onoraria, anticipata nel 2003 dal Premio Osella per la migliore sceneggiatura per Buongiorno, notte.
3. Un successo politico e anticonformistico a contatto con la famiglia
Il percorso artistico del regista mostra un evidente filo che attraversa ogni pellicola, impregnandone lo sguardo ed alterandone le intenzioni. L’anticonformismo si traduce in una critica continua, in un sentimento di ribellione, un bisogno di respingere inutili o manovrate costrizioni in vista di una maggiore libertà, di un percorso emancipativo meno indirizzato e più naturale. Già la sua opera prima è una manifesta dichiarazione d’intenti, un attacco ad uno dei valori cardine per la società borghese: la famiglia. Il tema è affrontato con coraggio e torna ridondante in molte sue opere: da Nel nome del padre a Salto nel vuoto, da La balia a Sorelle, un continuo rimarcare la pericolosità di una realtà tanto costringente.
Ma l’oggetto della critica di Bellocchio varia e tocca molte tematiche socialmente rilevanti: con il documentario Matti da slegare, co-diretto con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, si scaglia contro le pratiche in uso all’interno dei manicomi italiani, denunciandone la condotta; con Sbatti il mostro in prima pagina prende di mira i media, la manipolazione dell’informazione e i rapporti con la politica; con Marcia Trionfale passa alla critica del repressivismo militarista, mentre con Nel nome del padre palesa un’altra delle tematiche fondati del suo far cinema e del suo privato: l’attacco alle istituzioni religiose e al sistema educativo che lo ha formato.
4. La famiglia di Marco Bellocchio, dal fratello Piergiorgio alla moglie e al figlio
Figlio di un avvocato e di una insegnante, Marco è fratello del critico Piergiorgio Bellocchio e padre dell’attore, quasi omonimo, Pier Giorgio Bellocchio (Esterno notte, Melissa P), nato dall’unione con l’interprete Gisella Burinato (Sbatti il mostro in prima pagina, La febbre). La scrittrice Violetta Bellocchio e sua madre, la psicologa Lella Ravasi, sono rispettivamente la nipote e la cognata del regista, il quale inoltre, dopo il primo matrimonio, si è rispostato con la montatrice Francesca Calvelli, sua attuale compagna e madre della sua secondogenita, Elena, che ha lavorato al fianco dell’autore per moltissimi film: L’ora di religione, Buongiorno, notte, Fai bei sogni, Il traditore ed altri ancora.
5. Fare Cinema e il Bobbio Film Festival
Ogni estate a Bobbio, terra natia di Marco Bellocchio, il regista dirige il suo laboratorio Farecinema – incontro con gli autori, una scuola di regia e recitazione che sfrutta la città e i suoi dintorni come set cinematografici, recuperando comparse direttamente dalla strada; ad esso si lega il Bobbio Film Festival, istituito, sempre da Bellocchio, nel 2005, a dieci anni dalla nascita del laboratorio e in occasione dell’uscita di un primo lungometraggio, lì ideato e lì diretto, dal titolo Sorelle, poi ripreso con Sorelle Mai, nel 2010.
6. Marco Bellocchio subentrato a Steven Spielberg
Durante un’intervista a Repubblica, lo stesso Bellocchio ha dichiarato che Rapito, il film che a breve verrà presentato a Cannes e che narra la vicenda del caso Edgardo Mortara, era un progetto a cui, per diversi anni, si era dedicato Steven Spielberg, intento a girare il film tanto da tornare più volte in Italia nel corso di 5 anni, ma poi ricredutosi. Il regista italiano si è espresso così: “Ho saputo che Spielberg aveva già questo progetto ed era venuto in Italia per i sopralluoghi, visitando la scuola dei catecumeni a Bologna; sicuramente la sua sarebbe stata una versione inglesizzata della storia. L’anno scorso ero negli Stati Uniti assieme a Pierfrancesco Favino e ho scoperto che Spielberg aveva rinunciato al progetto poiché non aveva trovato l’attore bambino che avrebbe interpretato Mortara”
Leggi anche 8 registi italiani che si sono fatti da soli