Roberto Benigni a Roma FF11: “Discendiamo tutti da Chaplin, Rossellini e Fellini”
A concludere la serie degli incontri tenuti da grandi personalità della settima arte nel corso della Festa del Cinema di Roma 2016 è stato il premio Oscar e orgoglio italiano Roberto Benigni, che ha deliziato la platea per 90 minuti di puro amore per l’arte e per il cinema. Roberto Benigni ha ripercorso insieme al direttore artistico della Festa Antonio Monda tutta la sua carriera, rivelando aneddoti e curiosità sul suo rapporto con il cinema.
Il resoconto dell’incontro di Roberto Benigni col pubblico della Festa del Cinema di Roma 2016
Tutto quello che ho detto ora, è per arrivare a una conclusione. Dopo aver tanto cercato, ho ritrovato Pierino. Proprio lui: leggero, buffissimo, lunare, misterioso, ballerino, mimo, che fa ridere e piangere. Ha il fascino dei personaggi delle fiabe, delle grandi invenzioni letterarie. Rende credibile qualunque personaggio e tutti può abitarli. Amico degli orchi e delle principesse, dei ranocchi che parlano. È come Pinocchio e Giovannin senza paura.
Federico Fellini
Queste parole di Federico Fellini su Roberto Benigni, lette da Antonio Monda, hanno aperto l’incontro con l’attore e regista, che ha così commentato:
La dichiarazione che hai appena letto per me è un colpo al cuore, perché purtroppo l’ho letta solo quando Fellini non c’era più, e mi è venuto da piangere. Avrei voluto abbracciarlo e baciarlo. È davvero una cosa che fa commuovere.
È stata l’ultima intervista che ha fatto, quindi una dichiarazione d’amore, di stima sul lavoro. L’ho conosciuto la prima volta nel corso di una telefonata che mi ha fatto di notte. Dal 1980 stiamo stati insieme per 13 anni, e mi ha fatto fare i provini per fare il protagonista di ogni suo film. Quando mi faceva il provino mi faceva stare 30-40 minuti a improvvisare, poi mi chiedeva quanti anni avevo e mi diceva che cercava un sessantenne o una donna.
Federico Fellini aveva un modo di sedurre particolare, una voce suadente da monaca di clausura, da mago. Ti ingabbiava dentro il suo mistero.
Ti faceva sembrare sempre il centro di tutto, la persona privilegiata della sua vita. Non ti portava mai al cuore della sua profondità, ma sempre alla periferia. Era una persona che aveva la capacità stupefacente di trarre la magia dalle cose quotidiane. Traeva lo stupefacente dai significati ordinari. Lui aveva un amore per i clown straordinario, più che per le donne.
Quando ero sul set de La voce della luna mi chiamava Kim, come Kim Novak. Il nome di Federico Fellini quando ero bambino faceva parte della natura, infatti quando è morto ho detto che era come se fosse morto l’olio. Io pensavo che Fellini non potesse morire: era un nome che evocava delle profondità, delle bellezze, delle cose sconfinate, delle emozioni meravigliose. Lo considero sinceramente la vetta dell’arte moderna, un uomo che ha contribuito a fare del cinema una delle vette dell’arte. Come Kafka, come Stravinskij, come Picasso. Forse non ha cambiato la storia del cinema, ma è il più grande regista del Novecento.
È il regista che può vantare più capolavori, nessuno come lui ne può vantare tanti. E ogni suo capolavoro può vantare decine di scene madri.
La dolce Vita per esempio è un inferno travestito da paradiso. Federico Fellini aveva la capacità di fare in modo che il film guardasse te. La prima volta che ho visto un suo film da adulto mi sono detto “Questo mi conosce più di quanto mi conosca io”. Il cinema di Fellini è una pratica mai andata di moda, è una cosa dispendiosa, molto profonda. 8½ per esempio è un oggetto prodigioso, incredibile. Riusciva a parlare di sé e di noi, portava a galla dei sentimenti e delle emozioni che noi abbiamo ma che non sapevamo di avere.
Vedendo La dolce Vita la prima volta, ti accorgi, come nella grande letteratura, che il mondo è la fuori che ti aspetta, e che la vita è al tempo stesso dolorosa, sacra e bella. Di Stanley Kubrick per esempio non sappiamo nulla, ma di Federico Fellini sappiamo tutto.
Aveva la capacità di parlare intimamente di sé e fare diventare la sua vita nostra, come Dante quando dice “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai”. È noi e io. Era tutti noi. Guardando Fellini si vedono ingranditi la vita, la morte, il mondo, l’anima, la nostra anima, che poteva pure non piacerci, però era la nostra. Ci fissava impassibile l’occhio dell’arte. I film di Fellini sono l’apprendistato del mistero. Lui il mistero l’ha cercato per tutta la vita e l’ha trovato, bisogna fare come ha fatto lui.
Una clip tratta da La voce della Luna, ultimo film di Fellini con Roberto Benigni protagonista, ha introdotto la seconda parte della riflessione del comico toscano sul cineasta romagnolo:
Trovarsi davanti a Fellini è come trovarsi di fronte a un tramonto o a una quercia. Quando arrivava Fellini si sentiva un vento fresco che cambiava il mondo, qualcosa che faceva battere il cuore. Non mi sono mai abituato alla sua presenza. Io ero come un cagnolino (infatti lui mi chiamava anche il cockerino): gli saltavo addosso per liberarmi di quell’emozione. Non è vero che lui improvvisava poi al doppiaggio rifaceva tutto. Lavorava moltissimo, mi faceva trovare tutti i giorni un dattiloscritto, mi faceva imparare a memoria la parte e me la faceva recitare. Era uno dei più grandi sceneggiatori del mondo, era davvero meraviglioso.
Per La voce della Luna è stata fondamentale anche la presenza di Paolo Villaggio, e Fellini era felicissimo di lavorare con lui. Questo film è anche il suo testamento sulla nostra società, sul nostro mondo di adesso. Fa vedere il nostro rimbecillimento, la volgarità, e addirittura la nostra fine. Era un amarissimo commento sui nostri tempi, ma fatto con la sua solita bellezza stilistica.
Accanto a Fellini si incontravano sempre grandi personalità. Un giorno andai nel suo ufficio e mi disse “Roberto, sei arrivato un po’ in anticipo, ti presento Ray Bradbury!”. Io avevo letto tutti i suoi libri! Poi siamo andati fuori e mi ha detto: “Che fai stasera per cena dopo il doppiaggio? È venuto a trovarmi un mio amico”. E io: “Sono occupato, mi dispiace.” E Federico: “Peccato, è Elia Kazan”. E io: “Sono libero!” Lo venivano a trovare da tutto il mondo, era un incontro continuo. Una curiosità su Kazan: quando sua moglie andò a vedere 8½, tornò a casa e gli disse: “Sai, Federico ha fatto un film sulla tua vita.”
Federico Fellini amava i suoi attori, cercava di prendere da ognuno di noi l’aspetto più poetico, più immaginifico. Io in questo film rappresento la libertà d’azione, la fantasia, mentre Villaggio la morte, la vecchiaia, il rigore, la legge. Aveva mirabilmente messo insieme questi due personaggi che erano l’uno l’altra faccia dell’altro. È un film che io considero un capolavoro.
A seguire Roberto Benigni ha rivelato il suo rapporto con altri due grandi cineasti, ovvero Michelangelo Antonioni e Terrence Malick. I due registi avrebbero voluto Roberto Benigni per interpretare rispettivamente San Francesco e Il Diavolo:
Io credo che in tutte le arti il moderno sia meglio del passato, anche se è impensabile che lo dica io. Non c’è mai stata un’epoca che non sia stata definita moralmente e culturalmente in declino, anche nella Grecia di Socrate. La lotta secondo me non era fra Fellini e Visconti, come tanti dicevano, ma fra Fellini e Antonioni.
Con Antonioni cambiava il ritmo, il suono delle cose. Fellini e Visconti in alcune cose si somigliavano, ma con Antonioni cambiava tutto, come cambia con Bresson, Olmi, Ozu. Questi registi ci insegnano a guardare, come se noi non sapessimo guardare. Antonioni aveva l’ossessione per la bellezza.
Ero diventato suo amico, perché venne a vedere Berlinguer ti voglio bene e si addormentò. Berlinguer ti voglio bene è davvero uno dei miei film più belli, e a tal proposito voglio fare un omaggio a Giuseppe Bertolucci, perché è stato veramente un grande autore, una perdita immensa. Antonioni voleva fare qualcosa insieme, e io accennai a San Francesco. Cominciammo a scrivere qualcosa, ma poi non se ne fece più nulla.
Con Terrence Malick invece ci siamo conosciuti la notte degli Oscar, quando io ero lì per La vita è bella e lui per La sottile linea rossa. Malick non si vede mai, è un personaggio veramente straordinario e misterioso. Improvvisamente, come in un film di Fellini, mentre ero seduto in platea, qualcuno mi indica Terrence Malick con un cappello da texano che mi saluta con la mano. Durante la cerimonia si è alzato ed è venuto a presentarsi, ci siamo abbracciati, ci siamo scambiati gli indirizzi, ci siamo telefonati ed è anche venuto a trovarci a Roma.
Lui è molto cattolico, conosce alcuni passi della Divina Commedia a memoria, in italiano. Voleva fare un film su San Pietro e voleva che io facessi il Diavolo. Anche lui ha cominciato a scrivere, ma mi ha detto che è un progetto produttivamente difficilissimo e molto costoso. Comunque siamo ancora in contatto e questo progetto potrebbe ancora andare in porto.
Una clip tratta da Non ci resta che piangere ha fatto da incipit a una riflessione su questo splendido film e sul rapporti di Roberto Benigni con il compianto comico partenopeo Massimo Troisi:
Massimo Troisi portava in sé qualcosa che non si era mai visto: un senso di tragico disagio nella vita. Dopo aver visto l’esordio di Massimo in Ricomincio da tre l’ho cercato, proprio quando lui stava a sua volta per cercare me, perché aveva stima per le cose che facevo. Da allora non ci siamo mai più lasciati, fino all’ultimo giorno, anche se per lavoro abbiamo poi preso strade diverse. Avremmo voluto fare un seguito di Non ci resta che piangere, che è nato esclusivamente sulla purezza dell’allegria. Io l’ho fatto solo perché c’era lui e lui l’ha fatto solo perché c’ero io.
L’amicizia è come l’amore, è un sentimento che non si controlla. Dietro a Non ci resta che piangere c’è una faticosissima sgangheratezza. Non sapevamo dove andare, abbiamo scritto la sceneggiatura 3 o 4 volte con differenti autori, abbiamo riscritto fino alla fine dell’ultimo giorno. Ci sono delle scene che abbiamo dovuto interrompere perché improvvisavamo molto, e l’improvvisazione a volte ha dei picchi altissimi, ma anche delle cadute rovinose. Io preferisco provare una settimana e poi improvvisare.
Con Massimo per esempio abbiamo improvvisato la lettera al Savonarola.
Eravamo come due adolescenti, ridevamo di qualsiasi cosa si muovesse, e abbiamo tradotto questa allegria in un film. Fra me e Massimo è stato un rapporto di vero amore. La sua è stata una perdita immensa, perché lui era un vero autore. Massimo mi ha insegnato molto. Lui non amava molto muovere la macchina da presa, in Non ci resta che piangere tutte le inquadrature fisse sono le sue e tutte quelle in movimento sono le mie. Massimo è stato uno scoppio, una di quelle persone che capisci al volo che sarà importante per te, e davanti alla quale bisogna lasciarsi andare, come ci si lascia andare nudi di fronte alla vita.
Inevitabile poi un accenno da parte di Roberto Benigni a un’altra grande icona cinematografica napoletana come Totò:
La prima volta che ho visto Totò al cinema mi ha fatto paura. Totò faceva paura perché aveva un’aria da bambino centenario, sembrava un angelo pazzo. La grandezza di Totò non erano le battute o la sua particolare linguistica, ma era la sua figura. Era veramente come un teschio che si muoveva. Basta che Totò si sposti un attimo e dietro di lui c’è una fila di morti di fame, tutti i morti di fame di Napoli che ghignano. È stata una maschera irripetibile, poco compresa proprio perché inquietante e misteriosa.
La grandezza di Totò sta proprio nella morte. In Massimo Troisi non c’erano questa forza espressiva e questa grandezza quasi macabra, però anche in lui c’era un forte senso della morte. Lui aveva la consapevolezza che la sua vita sarebbe stata breve, si sentiva in ogni sua scelta.
Roberto Benigni ha poi fatto un accenno scherzoso alla sua tanto discussa cena da Barack Obama, per cui è stato costretto a rinviare di qualche giorno l’incontro col pubblico della Festa:
Chiedo scusa a tutti voi, ho cercato di mantenere la data più vicina possibile, ma non si può dire di no a Obama. La Casa Bianca era la Casa Bianca, Rossa e Verde, perché era tutto italiano, mancava solo Goffredo Mameli. Abbiamo parlato un po’, lui mi ha fatto i complimenti e mi ha detto che ama molto La vita è bella.
È stato molto emozionante e toccante, quando ha fatto il suo discorso mi ha citato dal palco e poi è sceso ad abbracciarmi. Considero Obama una delle personalità più straordinarie della nostra epoca, sia lui che sua moglie Michelle.
Una sequenza de Il piccolo diavolo è servita per introdurre Nicoletta Braschi, moglie, musa ispiratrice e fida collaboratrice di Roberto Benigni:
È una scena a cui tengo particolarmente, perché è l’ingresso in scena della protagonista femminile in una commedia. È uno degli apici del mio cinema. Prima dell’arrivo di Nicoletta Braschi il mio cinema era farsesco, con lei invece nasce la commedia e in qualche modo anche la tragedia.
La commedia senza la presenza femminile è come una vita a metà. È sua per esempio l’idea di produrre i nostri film, cosa che ci ha dato una grandissima libertà.
La sua presenza dà verità a tutte le storie. Il comico puro vola alto e non lo si prende più, la sua presenza invece riporta con i piedi a terra e fa diventare tutto reale. Ha un’autonomia, un’indipendenza dai personaggi che è straordinaria. Non riesco a immaginare un’altra presenza che non sia Nicoletta Braschi, l’ho scelta perché ho una grande stima di lei come attrice. Mi ha insegnato che il lavoro dell’attore è sì lasciare la porta aperta alla fantasia, ma soprattutto fare un grande studio.
Mutuando le parole che ha usato lei per me in un’intervista qualche tempo fa, posso dire che per me Nicoletta Braschi è stata una vera benedizione.
Roberto Benigni ha poi parlato dei primi approcci col cinema da parte sua e della sua famiglia:
Io vengo da un piccolo paese, popolato prevalentemente da contadini. Eravamo poveri in maniera mitica, non avevamo niente. Stavamo in questi grandi focolari e ci raccontavamo storie. Io stavo un po’ fuori dal focolare e vedevo le ombre, come nel Mito della Caverna di Platone. Il primo film che ho visto al cinema, con le mie tre sorelle più grandi di me, è stato Ben-Hur.
Lo abbiamo visto da dietro in un cinema all’aperto, perché non avevamo i soldi per entrare; vedevamo tutto alla rovescio, quindi per anni io l’ho chiamato Ruh-Neb.
Il primo film che ho visto al cinema da dentro invece è stato Lo specchio della vita di Douglas Sirk.
Un film straordinario, dove tutti piangevano. L’ho rivisto da grande e mi sono messo a piangere di nuovo, è difficile fare cinema in maniera così intensa. Quelli sono film irripetibili, nessuno oggi penserebbe di fare un film di quel genere. Una cosa che ha il potere di fare ridere e piangere ha più potere di qualsiasi dittatore al mondo.
Mio padre e mia madre invece hanno visto il loro primo film al’’età di 60 anni: era Berlinguer ti voglio bene. Loro non erano mai stati al cinema in vita loro. Sono andati al cinema all’aperto alle 3 e, come nelle sale da ballo, finché non ha chiuso non sono andati via. L’hanno visto dalle 3 a mezzanotte, tutte le proiezioni. Mio babbo stava fuori dal cinema per fare entrare la gente dentro.
Una sequenza di Daunbailò è servita per introdurre una serie di aneddoti e curiosità sul rapporto di Roberto Benigni con Jim Jarmusch e altri registi:
Io e Jim Jarmusch ci siamo conosciuti al Festival di Salsomaggiore, dove eravamo insieme in giuria, che era presieduta da Robert Wise. Io e lui eravamo d’accordo su quasi tutte le scelte e in contrasto con tutto il resto della giuria. Ci siamo cominciati a frequentare, e accadde lo stesso scoppio che avvenne con Massimo Troisi, infatti siamo ancora profondamente legati.
Lui stava scrivendo un nuovo film di cui non aveva ancora il titolo, e ha inserito nel film me e Nicoletta Braschi, prendendo dalla vita vera di entrambi le cose che amava di più. Un esperimento molto pericoloso, che però ha funzionato.
Jarmusch è una persona di una cultura straordinaria; ama la poesia, la letteratura, il cinema, l’arte, la musica. Ho lavorato anche con altri grandi registi americani come Blake Edwards e Woody Allen. Blake Edwards sa sempre dove mettere la macchina da presa. Stessa cosa per Woody Allen, una persona misteriosa e incredibilmente prolifica.
L’incontro che ha cambiato la mia vita, la cosa che mi ha fatto desiderare di fare parte di questa bellezza è stato quello con Charlie Chaplin. La prima volta che l’ho visto al cinema sono uscito frastornato. Sono entrato a vedere La febbre dell’oro e sono uscito che ero un’altra persona. Ho visto qualcosa che non avevo mai visto. Mi sono chiesto come si faceva a fare ridere e a essere sempre poetici, come il Don Chisciotte. Ne La febbre dell’oro ho visto la furia e la grazia insieme, ho visto che accadeva qualcosa dentro di me. Nessuno scrittore o letterato ha capito i tempi moderni come li aveva capiti Charlie Chaplin. Dopo questo film ho visto tutti gli altri che ha fatto, e ho amato particolarmente Luci della città.
Per non piangere alla fine di Luci della città bisogna essere disumani. Per la prima volta Charlie Chaplin ci ha fatto conoscere tutti gli sconosciuti, che trovavano così il loro principe.
Discendiamo tutti da Charlie Chaplin, da Roberto Rossellini, che è stato un po’ l’Omero del cinema italiano, e dallo stesso Fellini, che è stato suo assistente.
Un altro regista che vorrei citare è Bunuel. Fellini e Bunuel fanno esprimere il cinema con il suo linguaggio più proprio, quello del sogno. È un’operazione che riesce solo a loro due. Bunuel è dentro il nostro sogno, sogna per noi. Muove la macchina da presa e racconta come si racconta nei sogni.
La successiva clip è stata di Johnny Stecchino, diretto e interpretato da Roberto Benigni, che ha così commentato:
Johnny Stecchino è stato scritto insieme a Vincenzo Cerami, al quale vorrei dedicare tutto il mio ringraziamento. Vincenzo mi ha insegnato a costruire, e l’incontro con lui è stato per me fondamentale. Mi manca profondamente. Questo film è nato da un’idea tragica, cioè un soggetto che Vincenzo voleva usare per un racconto breve. Io ho invece pensato che potesse diventare divertentissimo. Mi è piaciuto tantissimo interpretare due ruoli così diversi.
Roberto Benigni ha poi indugiato sul suo rapporto con la religione e con i papi:
Io credo fermissimamente in Dio, ma non so se c’è. Credo che la più grande fede sia quella che non ha una risposta a tutto. Le tre parole “non lo so” salverebbero la vita a tante persone. Il senso del misterioso e del divino mi piace molto. Ho visto La vita è bella con Papa Wojtyła in Vaticano.
La prima volta che l’ho visto era in pantofole rosse, con le suore che gli facevano un tipo di inchino che io non ho mai visto, una specie di ola divina. Nicoletta Braschi era rimasta a Los Angeles perché aveva avuto un’influenza e non poteva prendere l’aereo. Le dissero che non poteva ripartire neanche se la voleva il Papa. Io lo raccontai a Wojtyła che scoppiò a ridere. Alla fine del film lui rimase in silenzio e mi disse che lo aveva fatto piangere. Da allora rimanemmo in contatto, mi scrisse una lettera come un padre scriverebbe al figlio. Mi disse che mi voleva in Vaticano per fare qualcosa sul trentatreesimo canto della Divina Commedia, ma poi non abbiamo avuto il tempo per farlo.
Dopo I Dieci Comandamenti invece mi ha fatto chiamare Papa Francesco a casa alle 8 della mattina. Io dormivo e hanno detto al posto mio al Papa di richiamare il giorno dopo, e lui mi ha veramente richiamato per congratularsi il giorno successivo!
L’ultima sequenza mostrata è stata una scena chiave de La vita è bella, il film con cui Roberto Benigni ha conquistato l’Oscar e la celebrità internazionale.
Questo è un film che ha avuto un abbraccio dal mondo incredibile e inaspettato, un trionfo di amore. La vita è bella è nato dal fatto che volevamo mettere un corpo comico in una situazione estrema, anche se è pensato e costruito come una vera tragedia. La scelta di autoprodurci è stata fondamentale, perché ci ha permesso di essere liberi di fare morire il protagonista, anche se la morte del comico è stata sempre un tabù.
Tanti hanno ostacolato questa scelta, esercenti compresi, cercando di fare tagliare la mia morte, soprattutto in Italia. Ci tengo a precisare che questo non è Auschwitz, è un campo di concentramento dove ci sono le montagne, e ad Auschwitz non ci sono. Tanti hanno criticato il film dicendo che Auschwitz è stata liberata dai russi e non dagli americani, ma quella non è Auschwitz, e gli americani hanno liberato tanti altri campi di concentramento.
Adorno diceva che dopo Auschwitz non si può più fare poesia, ma la vita incredibilmente si riprende tutto.
Non è possibile uccidere la poesia nemmeno con cose inenarrabili ed estreme come Auschwitz. La frase di Adorno addirittura è diventata essa stessa poesia. L’amore e la vita riescono incredibilmente a trionfare su tutto, anche su ciò da cui non si può tornare indietro. La vita è bella mi ha segnato e mi ha cambiato la vita.
Roberto Benigni ha concluso l’incontro annunciando il suo imminente ritorno alla regia:
Per una decina d’anni mi sono occupato di Dante e ho fatto tante cose in televisione. Ho dedicato tutta la popolarità che avevo a trasmettere la poesia di un’altra persona. Dopo queste esperienze adesso però ho un desiderio irreprimibile di fare qualcosa di un’allegria sfrenata, e a tal proposito sto pensando a un nuovo film.