Editoriale | Ricciardi non è come gli altri: il commissario Rai, tra compassione e giustizia (impossibile)
Il commissario nato dalla penna di Maurizio De Giovanni e interpretato da Lino Guanciale rinnova l’archetipo del detective solitario con una sensibilità tanto profonda quanto inedita. Rifiutando giudizi e facili sentenze.
Il commissario Ricciardi è diverso. Il personaggio creato dallo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni e incarnato con maestria da Lino Guanciale nell’omonima fiction Rai sembra essere nel contempo allineato e distante rispetto ai grandi detective della letteratura gialla e noir.
La figura quasi archetipica dell’investigatore dei romanzi (e dei film) di genere è da sempre forgiata a partire da un’impronta di solitudine. Una solitudine che si traduce, per compensazione, in fiuto per il crimine come luogo ‘altro’ per eccellenza, quello dell’adrenalina e della pulsionalità. Una solitudine che sospinge verso la ricerca dei criminali per distogliere lo sguardo dalle ombre interne, per evitare d’interrogare la fonte primigenia di quello strano avvitamento su di sé: da dove provengono il ripiego e la difficoltà ad amare, quel doloroso ritiro dalla vita?
La solitudine dei detective può assumere forme di anaffettività, come nel caso di Sherlock Holmes, o di brusca severità, come per il commissario Maigret e, in certa misura, per Montalbano. Può attorcigliarsi nel cinismo, come spesso accade agli investigatori delle saghe nordiche, oppure trovare un mascheramento nell’indifferenza alla ferocia, nell’impermeabilità ruvida al male, nell’appropriazione di grammatiche machiste: è questo il caso della maggior parte dei detective del filone hard-bolied.
Il commissario Ricciardi, audace nel lavoro, impacciato in amore
Il commissario Ricciardi: il cast della serie Rai
Anche Ricciardi è solo. Orfano fin da bambino, vive con la sua anziana tata Rosa e, tutto preso dalla sua missione professionale, non è in grado di concedersi altro. Eppure, nella sua solitudine, s’intuisce un’energia compressa, un’emotività poco integrata che, per questo, si rivela attraverso un sintomo fallace, l’eccesso di razionalità. È un ‘animale’ sentimentale, Ricciardi. Sentimentale e sofferente. Certo, soffre per il “fatto”, la voce che lo perseguita ripetendogli le ultime parole pronunciate prima di morire dalla persona di cui vede il cadavere, voce che non s’estingue fino a che il caso non è risolto.
Ma Ricciardi soffre anche per com’è, per la sua esistenza alla finestra, spettatore della festa quotidiana che accende la città e da cui si sente escluso. Soffre per il lancio nel vuoto che non è capace di fare. Prima di scrivere una lettera a Enrica per chiederle il permesso di salutarla dalla finestra, acquista un manuale d’istruzioni per epistolari galanti.
Gli azzardi di cui è capace sul lavoro, quando assicura al superiore che gli basterà un giorno per arrivare alla risoluzione di un caso per cui ancora brancola nel buio, divengono per lui faticosa conquista nel territorio limaccioso dei sentimenti. In Enrica, la vicina di casa che lo affascina, testarda e timidissima, riconosce lo stesso impaccio, la stessa vocazione ad autoinfliggersi l’emarginazione, il dolore di pensarsi inabile alla vita e di veder confermato nella vitale grettezza altrui il proprio marchio di diversità.
La pietas del commissario Ricciardi
Nel temperamento del commissario vi sono una dolcezza quasi infantile e una distinzione signorile che fanno di lui un antieroe sui generis: un ultimo, nonostante i privilegi della classe sociale a cui appartiene. La pietas è la sua qualità più distintiva: di fronte alla violenza, prova compassione. Non giudica mai. Dell’umano, in fondo, ama tutto. Spesso le persone assassinate sono più meschine e moralmente discutibili degli assassini. E, quando scova questi ultimi, Riccardi talvolta li lascia andare, non li denuncia, si scopre interessato a ristabilire la verità, ma disinteressato a vederla trionfare al di sopra della comprensione profonda dei moventi, di un senso di compartecipazione al dolore dell’altro, anche se questo altro è un omicida.
E l’elemento che eleva il racconto visivamente sontuoso delle avventure venate di malinconie e amarezza di questo commissario dolente alle prese con i fantasmi suoi propri e con quelli di una società nello scacco del fascismo è proprio questo: il suo rifiuto di identificare la giustizia con il giustizialismo. L’umanità ribolle nelle sue contraddizioni e, in fondo, nessuno è colpevole perché nessuno può dirsi innocente. Ricciardi assolve tutti per l’impossibilità di condannare i singoli, nella resa complice di ognuno all’insensatezza implacabile del male, il male dentro e al di fuori di se stessi.