My Lady Jane è meglio di Bridgerton (anche) perché libera le donne intelligenti dalla sapiosessualità
Ma Lady Jane, eroina intellettuale a suo agio con il potere, è diversa dalle altre 'saputelle' seriali. Ecco perché!
My Lady Jane, la serie da non mancare questa estate, si concede evasioni nella fantasia e nello spirito – la voce narrante, un filo canzonatoria, commenta l’azione in scena in perfetto british humour, con quel grado minimo di cinismo e gusto dell’assurdo che sempre serve alla causa del divertimento elegante – e se ne infischia della fondatezza storica e del realismo, per imbastire un romance coniugale ucronico-fantasy che si spinge dove Bridgerton non ha osato: a restituire alle donne intelligenti il diritto di essere attratte anche solo – si fa per dire – da un bel broncio e da un bel fondoschiena, senza per forza sapere come mai o doversi sentire il colpa per i fremiti, quelli sì davvero ribelli, del loro corpo. Perché l’amore nasce dalla pelle, in tutta la sua – dell’amore e della pelle – irragionevolezza.
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My Lady Jane: tra ucronìa, fantasy e period drama, una serie briosa, sexy e glam
SPOILER ALERT – Sul web circola da un po’ un trailer della miniserie My Lady Jane corredato da una didascalia che ammonisce: “Non mostrare questo video alla tua insegnante di Storia”. In effetti, lo show Prime Video parte dalla traccia della biografia illustre di una grande personalità del Cinquecento europeo, quella di Lady Jane Grey, per elaborare un racconto autonomo, non soltanto reimmaginando le cose per come sono invero andate, ma anche riscrivendo i rapporti tra realtà e surrealtà. Insieme alle guerre di religione che lacerano il regno – Anglicani contro Cattolici –, nella rielaborazione finzionale del periodo storico rappresentato, l’epoca dei Tudor, si combatte un’altra faida intestina all’Inghilterra: quella tra Veritiani, persone comuni, ‘babbani’ normodotati, ed Etiani, donne e uomini in grado di trasformarsi in animali, in genere (ma non sempre) quando e se vogliono.
L’operazione ucronica interviene invece a materializzare sia un clima storico mai esistito sia un evento mai prodottosi. Nel luglio del 1553, Jane Grey, pronipote di Enrico VIII, fu regina per nove giorni, dopo la morte del cugino Edoardo VI: pochi mesi dopo, nel febbraio successivo alla sua incoronazione e seguente, rapidissima deposizione, venne giustiziata insieme al marito Lord Guildford Dudley per volontà della cugina Maria Tudor, poi passata alla Storia come la Bloody Mary a cui il cocktail insanguinato deve, non a caso, il suo nome. Gli autori della serie scelgono di prendere un’altra strada – proprio qui la correzione attuata per via fittizia – e di lasciare alla povera Jane la testa sul collo, facendogliela perdere solo metaforicamente per il marito sposato al buio.
My Lady Jane, l’anti-Bridgerton, reinventa la Storia, ma non la complessità dei sentimenti
Sull’unione tra Jane Grey e Guildford Dudley, le cronache storiche in nostro possesso riportano, nella sostanza, due versioni principali: la prima, più romantica, sostiene che i due, sposatisi senza conoscersi per volontà della madre di lei e del padre di lui, si siano innamorati a prima vista, subito dopo aver incrociato gli sguardi sull’altare; la seconda, meno idealizzante, riferisce di un’attrazione tra opposti – lei, dedita agli studi, d’indole riflessiva; lui, dedito ai vizi, di temperamento sanguigno – divampata dopo un primo mese di matrimonio in bianco, con grande sorpresa degli stessi soggetti interessati. Quel che con certezza sappiamo è che Guildford, alla vigilia della sua esecuzione, chiese a Maria Tudor di poter passare l’ultima notte della sua vita insieme alla moglie.
La serie conserva il fondo autentico del racconto storico e segue con pazienza l’avvicinamento tra i due sposi, dal primo incontro in un taverna quando lei, ignara che lui di lì a qualche ora diventerà suo marito, si scopre elettricamente calamitata da quell’avventore che recita in latino ma non controlla i gas stomacali, all’ultima fuga dal teatro della comune rovina, forti di un legame che si è nel frattempo costruito, consolidato, consacrato ben al di là di una formula cerimoniale di circostanza. Intensifica inoltre il romanticismo aggiungendo un plot à la Ladyhwke: dall’alba al tramonto Guildford, diventato Etiano a seguito di uno stress emotivo, è costretto nella forma di un cavallo. Uno dei rari casi, il suo, in cui questa genìa trasformista non può controllare la metamorfosi.
A differenza di Bridgerton, un prodotto con cui, per alcuni evidenti punti di contatto, possiamo azzardare un accostamento, My Lady Jane non tradisce mai l’imperativo della coerenza drammaturgica: non antepone alle esigenze di verosimiglianza dei processi psichici l’adeguamento alla morale inclusiva, a propellenti ideologici esterni di marca socio-politica. Certamente, allarga le possibilità della rappresentazione – spazio a attori di colore e a affettività non eteronormative –, ma senza che questo significhi compromettere o addirittura precludere l’attendibilità di un fenomeno che, prima di esteriorizzarsi, necessariamente matura all’interno. Qui, per intenderci, nessuno scopre, di desiderare con ardore la propria amica d’infanzia, vista all’improvviso ‘con altri occhi’; qui, nessuna si ritrova fulminata da un’infatuazione per la cugina del proprio sposo apparsa dal nulla a (con)turbare il connubio eterosessuale; qui, nessuno ‘fluidifica’ la propria sessualità da un giorno all’altro in conformità non tanto a un appetito libidico onnivoro quanto all’identificazione narcisistica con lo spirito anacronistico di un tempo a venire che impone di scartare chi si è desiderato un attimo fa e, insieme, di non ‘scartare’ mai nessuna altra possibilità oltre a quella già conosciuta.
My Lady Jane: il cervello è sexy, ma non c’è solo quello
My Lady Jane concentra invece la sua attenzione su percorsi di scoperta sessuale univoci, senza dirottamenti: è addirittura una relazione coniugale, la più ‘normata’ per eccellenza, a farsi dispositivo di sperimentazione, dimensione della trascendenza del soggetto, soggetto spossessato delle sue facoltà decisionali. Eh sì, perché My Lady Jane ha un grande merito, quello di mostrare innanzitutto che non ci si innamora per volontà, ma contro la propria volontà cosciente – Jane non vorrebbe sposarsi, fa di tutto per evitarlo, ma, alla fine, si ritrova, con grande sorpresa, a combattere per difendere l’unione con suo marito, amato oltre ogni ragionevole attesa e misura – e, in secondo luogo, che l’amore si rivela attraverso il corpo, e non la mente: gli psicoanalisti chiamerebbero questo corpo che parla “inconscio”; i non psicoanalisti lo chiameranno in un altro modo, poco importa. È infatti comunque nel desiderio di ridurre le distanze da un altro corpo con il proprio che si annuncia quel sentimento scomodo e anti-identitario che è la passione amorosa. Lady Jane ci viene presentata all’inizio come la ‘solita’ eroina intellettuale: poliglotta, studiosa, riluttante a scelte ‘obbligate’ come le nozze, una femminista ante litteram diversa dalle altre femmine, le femmine semplici e docili. Poi, però – e qui My Lady Jane compie la sua magia e la sua torsione rispetto a paradigmi che si vorrebbero anticonvenzionali, ma di fatto ricalcano cliché abusati – l’eroina femminista e intellettuale inciampa nel suo desiderio (sessuale) per un uomo ‘bestiale’ e, nella caduta, scopre in fondo che quella bestia è, in primo luogo, dentro di lei, che lei non è tutta mente ragionativa o alti ideali o nobili propositi o invenzioni cognitive.
Da lì, il romance intensamente erotico – menzione d’onore alla intimacy coach che ha lavorato con i due attori protagonisti, amanti credibili e invidiabilmente appassionati – che forma Jane, la ‘informa’ di una nuova sé meno rigida, romance di formazione in cui Jane ‘impara’ (senza dover studiare) a amare l’altro, a sprofondare nell’altro, a accettare che l’altro mandi in pezzi l’immaginazione di sé fino a quel momento sostenuta. My Lady Jane ci dice due cose fondamentali sull’amore: la prima è che, se si ha la fortuna (o sfortuna, a seconda dei punti di vista) di poterlo sperimentare, bisogna rinunciare alla pretesa di credersi qualcuno – una cervellona che sa tutto; una ‘guaritrice’; una regina – o perlomeno di rinunciare alla pretesa di mantenere quel ‘qualcuno’ al riparo dalla disintegrazione dell’ideale di sé; la seconda è che, per una donna, avere cervello non significa per forza essere sapiosessuale, potere – o, peggio, dovere! – erotizzare solo un altro ‘cervello’.
La femminilità è molto di più che una somma di etichette coerenti tra sé, di puntini da unire fino a configurare un’immagine assoggettata a un’identità che fa da padrona e non può essere contraddetta. Jane si autorizza ad amare in Guildford sia l’uomo – la vulnerabilità dell’uomo, le sue umane contraddizioni – sia la ‘bestia’ – non l’animale, l’essenza biologia, ma la dimensione inconscia e segreta, singolarmente pulsionale, dell’altro – perché, a un certo momento, comprende che, anche in sé, non ha più senso tracciare una linea di demarcazione, ‘staccare’ la testa dal collo e lasciare indietro tutto il resto, come non fosse anche il resto cosa (casa?) propria. Ci fa allora piacere pensare che salvare Jane dalla decapitazione sia stata, per gli autori dello show Prime Video, una scelta dettata dalla volontà di abilitare una metafora: non mozzare la testa a Jane, regina d’Inghilterra e Irlanda, per permettere a Jane, la donna di genio, di salvarsi dal destino obbligato di feticizzare quella testa (in sé e nell’uomo amato). Di doverla, in ogni occasione e per forza, usare.