Teheran: la serie da vedere per comprendere il conflitto Israele-Iran
Perché le serie sono utili alla geopolitica: capire le ragioni dell’inimicizia tra Iran e Israele attraverso una serie distribuita da Apple TV+. La nostra guida alla visione di Teheran.
Nel Medio Oriente infiammato dalla recrudescenza del conflitto israelo-palestinese che si trascina ormai dallo scorso ottobre, i riflettori sono ora puntati sull’Iran. Per comprendere meglio la questione estremamente complessa del conflitto tra ayatollah e Sionisti, consigliamo di recuperare Teheran, serie israeliana le cui prime due stagioni sono disponibili agli abbonati Apple TV+, mentre una terza, già terminata, verrà distribuita non appena l’evoluzione della guerra in corso risulterà più chiara.
Da quando piattaforme americane come Netflix, Prime Video e Apple TV+ sono diventate canali privilegiati di distribuzione di prodotti seriali, anche le produzioni non americane hanno potuto raggiungere un pubblico globale. La mondializzazione del mezzo statunitense ha consentito a produzioni locali – europee, asiatiche, africane, latinoamericane – di uscire alla ribalta e di sprovincializzare il loro mercato. Teheran, scritta dall’autore della prima stagione di Fauda (Netflix), è la prima serie in lingua non inglese acquisita da Apple TV+: ambientata nella capitale iraniana – ma girata ad Atene, con grande perizia nella ricostruzione degli ambienti –, segue le gesta di Tamar Rabinyan, una giovane hacker al soldo del Mossad, l’intelligence israeliana focalizzata sugli interventi all’estero, durante un’operazione di neutralizzazione di un reattore nucleare a Teheran, operazione che, naturalmente, come da consuetudine del genere spionistico, si complica. Il cognome della donna tradisce l’origine iraniana: Teheran è, infatti, anche la sua città natia; scopriamo, già nel corso dei primi episodi della prima stagione, che vi vive ancora una zia, l’unica che ha deciso di restare quando gli altri componenti della famiglia, di religione ebraica, sono partiti per Gerusalemme.
Guida alla visione di Teheran, serie utile a comprendere i rapporti tra Israele e Iran, ora sorvegliati speciali nel Medio Oriente in fiamme
In una conversazione con il capo dei servizi segreti iraniani che lo ha sequestrato, Mordechai, padre di Tamar accorso a Teheran per rispondere a una richiesta – un’esca – della cognata, confessa al suo aguzzino di aver lasciato la natale Isfahān, popolosa città dell’Iran centrale, per Gerusalemme solo per un senso di appartenenza religiosa, ma, una volta lì, la nostalgia per il suo Paese – e “per suo Paese” intende proprio l’Iran, non l’Israele sionista – è cresciuta fino a consumarlo. Tutta la famiglia, del resto, ha sempre avuto “un occhio a Gerusalemme e un occhio a Isfahān”, strabismo metaforico che rivela la divisione soggettiva tra identità religiosa ebraica e identità etnico-politica iraniana. Una divisione che riguarda anche Yael Kadosh, la supervisor di Tamar, e non può dunque leggersi come caso isolato. Teheran sembra infatti insinuarsi nella ferita della diaspora ebraica, con l’obiettivo di abbattere gli schematismi e le polarizzazioni ideologiche e di evitare la riduzione del problema dell’ostilità tra Iran e Israele a una questione di differenza religiosa.
Gli ayatollah che, in Iran, presero il potere dopo la rivoluzione khomeinista del 1978-1979 terminata con la deposizione dell’ultimo scià della dinastia Pahlavi – dinastia al potere dal 1925 – e con l’instaurazione di una repubblica islamica sciita, hanno sempre avuto ben chiara la distinzione tra Ebrei e Sionisti, concentrando solo verso i secondi le loro energie persecutorie. Quel che Teheran mostra bene è quanto la religione sia di fatto un paravento o un pretesto per affermare un sentimento patriottico. Neanche il villain dello show, Faraz Kamali, il già citato capo dell’intelligence iraniana, sembra essere diventato un servitore dei guardiani della rivoluzione islamica per scrupolo religioso quanto piuttosto per una pervicace passione nazionalista: appartiene a una classe sociale media e, sì, apparentemente allineata al regime, ma tuttavia lui e sua moglie sono rimasti in contatto culturalmente e linguisticamente – lei padroneggia benissimo il francese – con il secolarismo precedente alla rivoluzione khomeinista, con un passato in cui, nel Paese, non si ricorreva all’Islam per nobilitare (e mistificare) le ambizioni di potere dell’uno o dell’altro attore politico. Nella seconda stagione della serie, vediamo inoltre Tamar infiltrarsi nella cerchia dei rampolli viziati dell’élite dirigente del Paese, un’élite che potremmo definire de iure e de facto teocratica; tuttavia, nessuno di questi rich kids si preoccupa della conformità della propria esistenza alla dottrina religiosa sciita, nessuno vive nella reverenza ad Allah, ma ciascuno di loro segue modelli estetici e comportamentali di impronta laicamente occidentale, ha interiorizzato paradigmi di desiderio squisitamente laici e occidentali.
La protagonista Tamar, eroina divisa, incarna l’ambivalenza dei rapporti tra Iran e Israele
Inoltre, se l’impatto di Tamar con Teheran è inizialmente nel segno della violenza – attraverso il ritaglio delineato dal finestrino del taxi in cui sta viaggiando, la prima immagine che, della città, vede è quella di un uomo impiccato –, pian piano, man mano che s’immerge nella vita del posto, approfondisce il suo sguardo fino a raggiungere un’altra dimensione, non immediatamente attingibile: la realtà di una gioventù vitalissima e determinata a recuperare margini sempre più ampi di libertà. Attraverso Milad, un hacker del luogo di cui si serve per far avanzare la sua missione e che presto diventa suo partner non solo in crime, Tamar entra in contatto con giovani oppositori del regime. Giovani che non hanno inibizioni sessuali, che consumano droga, che partecipano ai rave, che fanno della ‘trasgressione’ un imperativo morale e uno strumento di resistenza al regime. Il ritratto della società iraniana realizzato in Teheran da autori israeliani, e pertanto mediato da una sensibilità allogena, restituisce allora allo spettatore una complessità non appesantita dall’ideologia, una commistione di moventi differenti e un senso di compartecipazione tali da ridurre le distanze tra i due ‘nemici’, confondendo le linee di demarcazione tra chi è buono e chi è cattivo e, anzi, evidenziando i punti di contatto tra loro, la loro in fondo identica ambiguità d’intenti e di valori.
La stessa eroina, Tamar, è sia fisicamente sia psicologicamente caratterizzata dalla delicatezza dei tratti, da un temperamento labile che si esteriorizza: la costruzione del personaggio non passa, ed è nota di merito, attraverso un’operazione di mascolinizzazione. Tamar non è una dura, non è una donna che si nasconde dietro una maschera mimeticamente maschia; Tamar è solo poco più di una ragazzina che, forse a causa dello strappo vissuto nell’infanzia, dell’esperienza della diaspora e della divisione identitaria, è calamitata, quasi per azione di un fantasma inconscio, nella e dalla terra del ‘nemico’. È presa in un rapporto speculare con essa nel quale magneticamente si annullano i confini tra sé e altro.
Il governo iraniano è antisionista, ma l’Iran non è nemico degli Ebrei
In questi giorni in cui grande è l’attenzione rivolta all’Iran, dopo l’attacco di Israele a un edificio adiacente al consolato iraniano di Damasco e la conseguente rappresaglia iraniana, la visione di Teheran sembra così suggerirci la direzione da prendere per venire a capo di una questione di rara complessità che allarga la prospettiva del conflitto israelo-palestinese a un conflitto ancora più grande in grado di fagocitarlo. Lo fa mostrandoci fino a che punto il rapporto tra i due Stati è segnato dall’ambivalenza, dalla fatale convergenza di opposti vettori di attrazione. Iraniani ed Israeliani condividono l’orgoglio un po’ razzista di non essere arabi in una regione, quella mediorientale, a prevalenza etnica araba; Iraniani e Israeliani hanno ugualmente festeggiato, nel recente passato, la caduta del dittatore iracheno Saddam Hussein ad opera degli Stati Uniti, anche se per motivi diversi: i primi perché, attraverso la sconfitta del regime husseniano di matrice sunnita, quella che era sempre stata la maggioranza sciita del Paese – un Paese contro cui avevano combattuto una guerra sanguinaria dal 1980 al 1988 – poteva tornare al potere; i secondi perché la deposizione del dittatore iracheno sembrava allora prefigurare la nascita di un’altra democrazia liberale in Medio Oriente.
Eppure, gli Stati Uniti vittoriosi su Saddam Hussein, appunto storico nemico anche degli Iraniani, sono gli stessi che avevano cercato di impedire la rivoluzione khomeinista nel 1979. Gli Americani, notoriamente, hanno sempre sostenuto la causa sionista: la demonizzazione dello Stato israeliano da parte della classe dirigente iraniana – i sentimenti popolari sono un’altra storia – è dovuta forse soprattutto alla mancata elaborazione del ruolo avuto dagli Stati Uniti nel mantenere (e manovrare) il governo degli scià, fantocci dell’Occidente, per interessi perlopiù economici. Non sembrerebbe insomma che l’avversione degli Iraniani per gli Israeliani – gli Israeliani sionisti, più precisamente – dipenda soltanto dall’occupazione dei territori palestinesi da parte di questi ultimi; parrebbe invece che scaturisca da un grumo venefico di rancori irrisolti nei confronti degli Stati Uniti, dall’individuazione, nel sionismo, degli odiati caratteri del colonialismo occidentale e, nondimeno, dal desiderio di veder riconosciuta la propria supremazia in Medio Oriente. Del resto, quando Davide, nel 1030 a.C., riunì gli Ebrei sotto un unico regno, Israele – allora Giudea – si trovava all’interno dell’impero persiano. Se è vero che i grandi imperi della Storia sono tutti crollati, i Persiani non sembrerebbero aver mai abbandonato del tutto la memoria ‘affettiva’ della loro antica grandezza. Per riaffermarla, oggi la classe dirigente del Paese pensa che occorra mettere all’angolo lo Stato sionista, creatura del “Grande Satana” americano. Ma, come Teheran ci aiuta a capire, antisionismo e antiebraismo non vanno confusi: in Iran, non sono gli Ebrei a non essere tollerati, bensì coloro, tra gli Ebrei, che hanno scelto di andarsene in Israele, ‘tradendo’ agli occhi degli Iraniani il loro Paese nonché la culla dell’ebraismo biblico.