True Detective – Stagione 3: analisi e spiegazione del finale
L'ultimo episodio della terza stagione di True Detective tira le fila di un'indagine durata oltre trent'anni. Chi sono i colpevoli? E, soprattutto, qual è il messaggio che l'ideatore Nic Pizzolatto vuole comunicarci?
Con la sua narrazione rarefatta e riflessiva, anche la terza stagione di True Detective – analogamente alla prima e, pur con un diverso stile e diversi obiettivi, alla seconda – ha tenuto sulla corda gli spettatori fino all’ultimo episodio, lasciando in sospeso non solo la risoluzione del caso che ha tormentato per oltre trent’anni i detective Wayne Hays e Roland West, ma anche il senso ultimo di un’investigazione essenzialmente fondata sulla loro psicologia e sulla loro introspezione.
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Nell’ultimo complesso episodio (intitolato significativamente Now Am Found), l’ormai anziano Hays ritrova forse se stesso e assieme al collega viene a capo dell’indagine proprio quando ormai tutto sembra perduto o, più semplicemente, dimenticato. A giocare un ruolo fondamentale nello show – fin da quel “time is a flat circle” che è diventato uno dei leitmotiv dello show – è infatti l’idea di rimozione e di memoria, di accettazione dello sgretolamento del tempo e di rielaborazione soggettiva degli eventi secondo il proprio personale vissuto. Ma andiamo con ordine: cosa succede negli ultimi 80 densi minuti di True Detective 3?
True Detective: la verità è figlia del tempo
Dopo averci guidato per sette puntate attraverso svariati piani temporali (anni ’80, anni ’90 e 2015), la vicenda del rapimento dei due fratelli Purcell (10 e 12 anni) giunge ad una inaspettata conclusione. Nella gestione del twist il creatore Nic Pizzolatto cala la maschera rivelando le sue reali intenzioni, facendosi tutto sommato squisitamente beffe anche di chi, erroneamente, pensava che la meta principale della serie fosse quella della semplice risoluzione di un caso poliziesco. La verità era ad un passo, lo è sempre stata: tutto ruota attorno al famigerato uomo di colore senza un occhio, che qua e là ha fatto capolino durante la narrazione. Wayne e Hays, che si ritrovano dopo 25 anni e decidono – nonostante l’età e nonostante i rispettivi acciacchi – di riprendere in mano l’indagine, scovano finalmente (anche grazie alla testimonianza della vedova di Harry James, il poliziotto scomparso misteriosamente nei ’90 e successivamente messo inutilmente sotto torchio dai due detective) Junius Watts, il guercio.
Watts confessa tutto, nei minimi dettagli: era il factotum della ricca famiglia Hoyt, e fra i suoi compiti c’era la gestione della fragile erede Isabel. Isabel aveva perso in un incidente d’auto il marito e la figlia Mary, cadendo in depressione. Un giorno però, vedendo la piccola Julie Purcell a un pic-nic, decide che quella bimba deve essere sua, perché le ricorda la figlioletta perduta. Con la complicità della sua famiglia e di Junius passa all’azione: Julie – assieme al fratellino Will – trascorre sempre più tempo assieme a Isabel, in cambio di denaro (baratto di cui era a conoscenza solo la madre dei due fratellini, Lucy), e un giorno viene definitivamente comprata. Ad essere acquistata non è solo la ragazzina, ma anche il silenzio di Lucy: Will infatti sbatte la testa nel bosco, morendo sul colpo, e il suo corpo viene occultato in una grotta con la complicità di James (che piazzerà poi anche delle finte prove a casa del vagabondo Woodard, per sviare le indagini) e di Watts.
True Detective: e se la fine non fosse affatto la fine?
Ma Watts, col passare degli anni, si rende conto dell’orrore perpetrato: Julie viene segregata in una stanza completamente rosa, e viene drogata per dimenticare il proprio passato. Si opta quindi per una fuga: la ragazza riesce a scappare, e fa definitivamente perdere le sue tracce. Viene ritrovata da Watts nel 1997 in un convento che accoglie donne disadattate e maltrattate, ma è troppo tardi: è morta infatti di AIDS nel 1995. I due true detective Hays e West vengono anche accompagnati dalla madre superiora sulla sua tomba, come prova definitiva della sua scomparsa.
È la fine? Macché: Pizzolatto nella ultima mezz’ora ha in serbo per noi ancora almeno due colpi di scena. Una volta rientrato a casa, Hays scova casualmente (espediente piuttosto rozzo, ma che forse rende ancora meglio l’idea di come per lo showrunner la “vera” indagine fosse del tutto superflua) un indizio in un passo del libro pubblicato anni prima da sua moglie: all’epoca della sparizione lei aveva parlato anche con un compagno di classe di Julie di nome Mike Ardoin, e poc’anzi Hays aveva interloquito nel centro religioso proprio con un giardiniere che possedeva le medesime generalità. Non può essere una coincidenza, e Hays non si dà pace: il tassello mancante è a casa di Ardoin, e per capire se Julie è ancora viva e se il suo decesso è stato un abile sotterfugio è necessario capire dove abita.
True Detective: il passato è una terra straniera
Di fronte all’abitazione di Mike (e di Julie, che gioca nel giardino con la figlioletta) accade l’impensabile: Wayne Hays, che soffre di amnesia e di una malattia degenerativa che ne minaccia la lucidità, dimentica tutto. Non capisce perché si sia recato lì, non riconosce la donna a cui chiede aiuto per ritrovare la via di casa (e, in fondo, se stesso). Il suo destino è quello dell’eterna ricerca di senso, dell’eterna ripetizione. Così, mentre noi spettatori onniscienti sappiamo e ricordiamo cosa abbiamo visto (ma cui prodest? È davvero poi così importante?), lo stesso non accade per lui, che si ritrova a casa con la sua famiglia circondato sì dai suoi affetti ma ancora una volta smarrito.
Per ritrovarsi viene folgorato da due improvvisi ricordi, che al contempo lo feriscono e lo confortano: il momento in cui ha chiesto alla futura moglie di sposarlo (postilla: non sappiamo come Amelia Reardon sia morta, e alcune ambiguità del suo personaggio restano irrisolte) e quello in cui, da volontario in Vietnam a metà degli anni ’70, si inoltra nel fitto della boscaglia. Nel multiverso di True Detective, attraversato da false piste e doppi fondi, nulla si risolve, non ci sono finali che rimettano tutto al loro posto. Esistono solo le storie che ci raccontiamo, che contengono moltitudini e che spesso sono inattendibili. Ed è proprio questa sua apertura alla fallacia umana – al netto delle imperfezioni, delle incertezze, dei cali di tensione – a rendere il lavoro di Nic Pizzolatto meritevole ancora una volta di essere apprezzato e studiato.