Aborto: i film da vedere per riflettere su pro e contro
Dopo la sentenza del 24 giugno 2022, ci si interroga sulla fragilità del diritto delle donne a scegliere per sé: ecco alcuni film che, a tal proposito, ci fanno riflettere.
Aborto. In questi giorni non si fa che discutere della sentenza della Corte suprema statunitense che corregge la precedente Roe vs Wade del gennaio 1973: Jane Roe, nome di fantasia dietro il quale si celava l’identità della texana appena sedicenne Norma McCorvey, riuscì ad affermare il proprio diritto di abortire il terzo figlio, concepito con il marito alcolista e violento, contro l’avvocato Henry Menasco Wade, chiamato a rappresentare lo Stato del Texas.
La storica sentenza Roe vs Wade sovvertita: ora il diritto all’aborto non è più federale
Con una sentenza che fece storia poiché prima di allora l’aborto era illegale in trenta Stati e ‘condizionato’ in altri tredici, la Corte riconobbe il diritto federale – cioè applicabile a tutti gli Stati – di abortire anche qualora il feto non presentasse malformazioni o la gravidanza non fosse risultato di uno stupro o costituisse pericolo per la salute della gestante.
La Corte suprema rappresenta la più alta corte della magistratura federale degli Stati Unito, la quale accoglie le cause in terzo grado di giudizio da parte di tutti i 50 Stati, cioè quelle che vertono su diritti federali trasversali a tutti gli Stati. È composta da nove giudici, che vengono nominati ad vitam – salvo impeachment – dal Presidente con il consenso del Senato: ad oggi, due terzi dei suoi componenti (sei su nove) sono stati scelti da tre presidenti repubblicani, Trump e i due Bush, padre e figlio.
Nel caso Roe-Wade, ricostruito nel documentario Neltflix Reversing Roe (2018), la Corte, con sette membri a favore e due contrari, si era appellata al quattordicesimo emendamento della Costituzione, la cui sezione 1 recita: “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello Stato in cui risiedono. Nessuno Stato farà o metterà in esecuzione una qualsiasi legge che limiti i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; né potrà qualsiasi Stato privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi”.
Oggi, invece, la Corte – con sei voti a favore e tre contrari – rivede la sentenza del 1973 e sottrae al diritto di aborto la condizione di diritto federale: l’aborto non è, quindi, più tutelato in tutti gli Stati, ma questi potranno legiferare autonomamente in materia. Una conseguenza di tale revisione è anche la revoca della tutela della privacy, che veniva sempre garantita dal XIV emendamento della Costituzione, in quanto il sovvertimento della sentenza comporta anche la liberalizzazione dell’accesso ai dati personali di natura sanitaria.
Dal Racconto dell’ancella a La scelta di Anne: alcuni film per riflettere sull’alienazione del corpo della donna
Nell’introduzione alla sua Penelopiade, riscrittura dell’Odissea dal punto di vista di Penelope, Margaret Atwood confessa la sua ossessione per le dodici ancelle, amanti dei Proci, fatte impiccare da Ulisse e Telemaco al ritorno a Itaca del primo. Vent’anni prima, la scrittrice canadese aveva già terminato di scrivere Il racconto dell’ancella, distopia, poi trasposta in modo eccellente nell’omonima serie tv (Amazon Prime Video), in cui immagina l’estremizzazione di ciò che ravvedeva, quale primo germe, nell’Occidente più antico: l’espropriazione del corpo della donna e l’uso a fini riproduttivi dello stesso. Tra l’ancella impiccata e l’ancella strumentalizzata – e stuprata! – a scopi procreativi vi è un rapporto di continuità: entrambe sono alienate a loro stesse, private del controllo sui propri corpi da parte non tanto di un uomo, ma di un’intera struttura sociale autolegittimantesi, salda su assi valoriali che ne garantiscono la perpetuazione.
Altro film imprescindibile – al momento disponibile solo all’acquisto o al noleggio – è il recente La scelta di Anne, premiato a Venezia in occasione dello scorso festival del cinema: ambientato nel 1963, a più di dieci anni dall’emanazione della legge Veil che garantì il diritto all’aborto alle francesi, ispirato alla vicenda autobiografica dell’autrice Annie Ernaux, riadattato al piccolo schermo dalla regista franco-libanese Audrey Diwan, La scelta di Anne mostra come l’esistenza di leggi ostative nei confronti dell’interruzione di gravidanza finiscano non tanto per impedirne la pratica, ma per esporre le donne che non desiderano avere un figlio ai pericoli dell’aborto clandestino. La scelta di adottare il punto di vista di Anne, di non recedere mai da quella posizione di aderenza soggettiva è finalizzata al rifiuto di mettere in discussione la legittimità della scelta, nel caso della storia rappresentata dal film, a dispetto del titolo italiano che traduce il francese L’Événement (“L’evento”), a rigore una scelta-non scelta poiché la protagonista di fatto non valuta mai alternative.
Un affare di donne e Il segreto di Vera Drake: l’aborto dal punto di vista di chi lo pratica (illegalmente)
Dal punto di vista di chi l’aborto lo pratica (illegalmente) è, invece, costruito il film di Claude Chabrol Un affare di donne (disponibile alla visione per gli abbonati Mubi), che ricostruisce, grazie anche allo straordinario spessore interpretativo di Isabelle Huppert (attrice premiata con la Coppa Volpi, al Festival del cinema di Venezia del 1988), la vicenda storicamente documentata di Marie Latour, una donna trentenne che, durante il governo di Vichy, in piena occupazione nazista della Francia, prese a praticare aborti clandestini e pagò con la vita la sua scelta: fu, infatti, nel 1942, una delle ultime persone ad essere ghigliottinate pubblicamente in Francia. Ambientato nella Londra di inizio anni Cinquanta, anche Il segreto di Vera Drake del regista britannico Mike Leigh, Leone d’oro a Venezia nel 2004, segue le vicende di una madre di famiglia all’apparenza irreprensibile che aiuta giovani donne ad abortire e paga, per il suo gesto, con l’incomprensione dei suoi cari, la perdita della rispettabilità e quasi tre anni di carcere.
Da Juno a Mai raramente a volte sempre: il cinema indie americano rappresenta l’autodeterminazione femminile
Innervato d’inquietudine esistenzialista e di un dubbio che non può essere tacitato, a metà tra film a vocazione civile e meditazione universale sull’essere al mondo, 4 mesi 3 settimane 2 giorni, di Cristian Mingiu, drammatizza la vicenda di due amiche, ancora studentesse, che si confrontano con la necessità di abortire di una delle due in un Paese, la Romania, in cui l’interruzione di gravidanza è reato: è il 1987, il regime dittatoriale comunista di Ceausescusta per crollare e la precarietà della vita di chi vi abita si trasla nell’immagine – materializzata sulla scena – di un feto che non è diventato bambino, simbolo dell’impossibilità di uscire dall’utero dello Stato-Grande Madre.
Più lieve, per toni e impianto di scrittura, è la commedia Juno, realizzata nel 2007 (stesso anno del film di Mingiu) da Jason Reitman e scritto, su commissione, dalla blogger Diablo Cody, assoldata dai produttori proprio per la capacità di trattare tematiche importanti in punta di penna: si tratta del coming-of-age di un’adolescente che cambia idea sul fatto di abortire il figlio concepito con il suo migliore amico, ma decide ugualmente di non tenere il bambino, affidandolo, dopo il parto, a una ragazza single animata da un autentico desiderio di maternità.
Analogo a La scelta di Anne per quanto riguarda l’adesione al punto di vista della protagonista, determinata a mettere fine a una gravidanza indesiderata e affatto giudicata da chi la porta in scena, Mai raramente a volte sempre, l’opera di acuta sensibilità della regista indie Eliza Hittman (disponibile on demand sulla piattaforma Amazon Prime Video), ricorre, come già il romeno Cristian Mungiu, al motivo della sorellanza femminile – e del femminile sdoppiato, simbolicamente allo specchio con sé stesso – per addolcire un’epopea di autoaffermazione del diritto a scegliere di non accogliere un figlio.
Gli avverbi del titolo riproducono, nell’andamento burocratico di una lingua che percorre i puntelli di uno spectrum che non può restituire il mostruoso indicibile di un’esperienza (forse) di violenza, il casellario di un modulo sottoposto ad Autumn durante una visita in un ente assistenziale: il film, dal taglio cronachistico e antisentimentale, infatti, ci mostra una ragazza a malapena adolescente che, insieme alla cugina, dalla Pennsylvania si reca a New York per seguire il percorso – psicologico e medico – che la conduce all’aborto. Figlia di una solitudine – e di una madre incapace di essere tale –, Autumn non può ancora pensarsi madre a sua volta, ma, tutto attorno a sé, le rende difficile il processo di autoconsapevolezza e di conseguente e conforme assunzione di responsabilità dell’atto di scelta. Un processo, nondimeno, infine attuato, nel sacrosanto diritto delle donne ad autodeterminarsi.