Animal Kingdom: recensione
In attesa che, ultimate le note “tarantelle” che spesso affliggono la distribuzione cinematografica italiana, arrivi finalmente nelle nostre sale il suo ultimo lavoro The Rover, vi proponiamo oggi la recensione del primo (e unico) lavoro del crepuscolare regista australiano David Michöd che, con il suo noir Animal Kingdom, ha sorpreso e appassionato la critica internazionale, aggiudicandosi nel 2010 il prestigioso premio della giuria al Sundance Film Festival.
Orgogliosamente e ripetutamente paragonato ad un pilastro della storia del cinema come “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese, Animal Kingdom si propone come un ermetico crime movie, deciso ad introdurre rapidamente lo spettatore a quel pessimismo cosmico che sta facendo di David Michöd un fenomeno generazionale, capace di catturare drammaticamente l’attualità e riportarla nelle situazioni narrate.
Il promettente regista australiano, d’altra parte, nasce come reporter d’inchiesta sulla criminalità a Melbourne e questo background lo ha portato a maturare uno sguardo talmente analitico sulla realtà malavitosa da renderlo un vero e proprio etologo, che studia le dinamiche umane accostandole a gerarchie e regole del mondo animale (come il titolo della sua prima opera esplicita chiaramente), dove la paura e l’istinto di sopravvivenza rischiano di creare pericolosi e contraddittori scenari in cui si finisce per perdere di vista non solo il motivo e il fine per il quale si sta combattendo, ma anche qualunque senso morale: se mai ce ne fosse stata traccia.
La trama di Animal Kingdom si ispira ad un fatto di cronaca realmente accaduto: nel 1988 a Melbourne un membro della famiglia Pettingill, nota per i suoi crimini, fu accusato dell’omicidio di due agenti di polizia e successivamente (clamorosamente) assolto grazie alle testimonianze di un cugino che hanno reso inconsistente l’impianto accusatorio.
Tale vicenda suscitò una serie di polemiche che spinsero il regista a ideare un film che denunciasse con sottigliezza i temi dell’illegalità e della corruzione, descrivendo un mondo ormai fuori controllo: il diciassettenne Joshua “J” Cody (James Frecheville), dopo la morte della madre per overdose, si trova costretto ad andare a vivere con la nonna Janine “Smurf” Cody (Jacki Weaver), matriarca di una nota e pericolosa famiglia criminale, ed i suoi tre figli, tutti coinvolti in attività malavitose di alto livello. Joshua sembra vivere in uno stato semi-catatonico, in cui tutto gli scivola addosso senza suscitargli – almeno apparentemente – nessuna emozione. Melbourne è ormai una città allo sbando, in cui la squadra anticrimine uccide indiscriminatamente (e spesso in modo ben poco lecito e con deboli pretesti) qualunque sospetto criminale gli capiti a tiro.
L’omicidio di un amico di famiglia per mano (illecita) di un poliziotto porterà la banda a decidere di vendicarsi uccidendo due agenti: a tal fine coinvolgeranno il passivo Joshua, costringendolo a collaborare al raggiungimento del loro piano sanguinario e finendo per farlo arrestare ingiustamente insieme a loro.
La corruzione e la paura sembrano essere i due temi principali in Animal Kingdom: guardie e ladri agiscono spinti da un misto di istinto di sopravvivenza e pulsioni distruttive in cui gli stessi legami familiari, apparentemente esaltati e sublimati dalla figura riunificante (e terrificante) della signora Janine, finiscono per perdere valore in vista di un obiettivo più importante: vincere.
Unica eccezione a quest’ondata di thanatos, la figura del sergente Nathan Leckie (interpretato da un eccezionale Guy Pearce), alla guida della squadra antirapina: lui ha capito che Joshua può ancora essere salvato e lo convince a rinunciare alla falsa protezione della sua famiglia per affidarsi ad un programma di protezione testimoni e collaborare, così, a ricostituire la giustizia.
L’inaspettata presenza di questa “mela marcia” in famiglia, tuttavia, scatenerà una vera e propria guerra tra le parti, dando vita ad un graduale delirio verso l’obiettivo “salvezza”, concetto – anch’esso – che si rivelerà essere aleatorio e declassificato.
I toni di Animal Kingdom, pur essendo cupi e a tratti disturbanti, hanno il pregio di mantenere lo spettatore in bilico fra un documentaristico realismo ed un sentimento di follia persecutoria di massa, sublimato dalla scelta di un finale che riesce ad essere inaspettato ma che chiude, allo stesso tempo, un cerchio in uno scenario in cui, per quanto ci si possa sforzare, qualunque scelta si decida di fare si è destinati in qualche modo a soccombere.
Sostenuto da una sceneggiatura forte ed incisiva, in cui certe frasi riecheggiano e rimbalzano fino ad esplicitare il loro perché in un momento successivo del film, e da un cast pienamente immedesimato in questo mondo freddo e distopico (da segnalare l’interpretazione magistrale dello “zio Pope” Ben Mendelsohn), Animal Kingdom si rivela un esperimento assolutamente riuscito che battezza Michöd dandogli il benvenuto nel regno dei grandi registi.