Venezia 79 – Blonde: recensione del film di Andrew Dominik
La recensione di Blonde, film di Andrew Dominik con Ana de Armas nel ruolo di Marilyn Monroe, presentato a Venezia 79.
La stella di Marilyn Monroe torna a brillare grazie al regista Andrew Dominik, che presenta a Venezia il suo Blonde, in concorso per il Leone d’oro, con Ana de Armas nel ruolo principale. Il film, prodotto da Brad Pitt, Dede Gardner e Jeremy Kleiner con la loro Plan B Entertainment, è sceneggiato dallo stesso Dominik, che adatta per lo schermo l’omonimo romanzo firmato da Joyce Carol Oates.
Il film si apre nel 1933, a Los Angeles, dove la piccola Norma Jean vive assieme alla madre Gladys (Julianne Nicholson). Senza aver mai conosciuto il padre, la bambina si trova presto senza alcun genitore, quando la madre viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico poiché affetta da schizofrenia. Ormai cresciuta ed entrata nel mondo del cinema con il nome di Marilyn Monroe, la protagonista vede il proprio astro brillare sempre più fulgidamente, ma non riesce a convivere con l’identità che la sta rendendo un’icona mondiale, schiacciata giorno dopo giorno dal senso di inadeguatezza e dalle tragedie che si parano sul suo cammino.
Blonde: Andrew Dominik usa l’artificio cinematografico per raccontare la “maschera” di Marilyn Monroe
Fra gli astri del firmamento cinematografico destinati a brillare per sempre, negli anni la figura di Marilyn Monroe è stata studiata (e razziata) in ogni sua parte, dai libri ai documentari, interpretata al cinema solo pochi anni fa da un’altra bravissima attrice, Michelle Williams, in Marilyn (2011) di Simon Curtis. Come si può dunque raccontare una figura su cui probabilmente è già stato detto tutto? La risposta, per Andrew Dominik e la scrittrice Oates prima di lui, è quella di fare ricorso all’immaginazione, mescolando i fatti che scandirono la tragica vita della star con una buona razione di fiction. Non solo, ma far sì che il lavoro non nasca dalla necessità di tratteggiare un profilo biografico, più o meno fittizio che sia, bensì mettere a nudo la sofferenza di una donna schiava di un’esistenza vissuta all’insegna dell’artificio, di un’identità farlocca che le garantì il successo ma che non le concesse la vita “normale” che Norma Jean desiderava sin dall’infanzia e che continuò a sognare fino alla morte.
L’idea di maschera associata a Marilyn Monroe diviene il faro che guida Blonde in tutta la sua costruzione, assumendo questi una forma “artefatta” in ogni componente. Dominik gioca con il rapporto dell’inquadratura cinematografica, si sposta dai 4:3 ai 16:9, abbandona il formato orizzontale per slanciare l’immagine verticalmente; dipinge quadri inondati di colori, illuminati da una luce che irradia i capelli eburnei della sua protagonista, per poi scattare di questa istantanee in bianco e nero dalle ombre intense che ne modellano il volto, spesso solcato da lacrime; anima ritratti in cui Marilyn vede il padre che la abbandonò, dà forma agli incubi che la tormentano, ci mostra i feti che germogliano nel suo ventre e con cui parla, ricevendo risposta. Nella vita di Norma Jean e nel tessuto stesso del film, la spontaneità ha ben poco spazio da reclamare.
Ana de Armas fa sua Marilyn Monroe, dando nuova vita alla star del cinema
A monte, la decisione di Dominik trova dunque una ragion d’essere, sebbene il regista non appaia mai incline a porre un freno a una manipolazione tanto evidente. In questo, il film rischia di collassare sotto il peso di un artificio tanto esasperante, che priva il racconto di un respiro genuino, come se non stessimo mai assistendo a qualcosa di autentico, nemmeno nei momenti in cui Norma Jean riesce a chiudere nell’armadio la veste di Marilyn. Nel suo essere così carico di simbolismi, rappresentazioni oniriche e una fotografia che fa dell’alterazione la propria bandiera, Blonde è forse “troppo” nelle sue quasi tre ore di durata, complice una scrittura che a sua volta non va per il sottile, indugiando e imboccando lo spettatore lì dove la macchina da presa è già di per sé più che esaustiva.
Ciò non priva tuttavia l’opera del regista australiano del proprio fascino, incarnato dalla bellezza sconvolgente di Ana de Armas, che dà umanità a una figura assurta ormai a simbolo, mitica nel suo essere immortale e irraggiungibile. Per la natura sopra descritta del film, interessato solo quanto strettamente necessario al vero storico, l’interprete cubana non “fa” Marilyn, semmai la evoca. Nei suoi piccoli gesti, nel sorriso, l’attrice protagonista ne crea una versione propria, tanto familiare quanto nuova: un’icona che in lei rinasce.
Dopo aver portato al cinema la vita del criminale Mark Brandon Read in Chopper, la storia dei due leggendari banditi in L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford e aver girato due documentari su Nick Cave, Dominik scardina il modello del biopic, da molti suoi colleghi seguito accademicamente. Prendendo in prestito anche dalla video-arte, il cineasta sperimenta con le dosi di realtà e fiction come farebbe uno chef in cucina, ottenendo infine un piatto forse troppo ricco, a tratti dal sentore pretenzioso, ma che intriga per la sua costruzione. Dando per scontata la conoscenza da parte del pubblico di alcuni eventi e persone che segnarono la vita della star, ignorandone altrettanti, il titolo non si propone come biografia su schermo, bensì come specchio del dramma di una donna che molti amarono ma che forse nessuno capì fino in fondo; un’icona che divenne il sogno di milioni di persone senza però riuscire a dare forma al proprio; una stella che, come una vero astro nel cielo, a tanti anni dalla morte ancora continua a illuminare con la sua luce.
Disponibile su Netflix dal 28 settembre, Blonde è stato presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2022. Il cast è composto da Ana de Armas, Adrien Brody, Bobby Cannavale, Xavier Samuel, Julianne Nicholson e Lily Fisher.