Brigitte Bardot Forever: recensione del film di Lech Majewski

Idoli occidentali all'ombra di Stalin, nel film di Lech Majewski, al cinema dal 18 aprile 2024.  

Adattamento del libro autobiografico omonimo scritto dal regista, Brigitte Bardot Forever è la telemachia di Adam, ragazzino che, nella Polonia comunista all’ombra di Stalin, si fa aiutare da idoli occidentali a ritrovare il padre scomparso. In sala dal 18 aprile 2024.  

Nella Polonia della seconda metà del Novecento, sotto lo sguardo accigliato di Stalin, Adam, preadolescente, vive solo con la madre bellissima, corteggiata con insistenza da due pretendenti ‘spioni’, nell’attesa del ritorno del padre, emigrato in Inghilterra. Irriverente nei confronti degli eroi nazionali, di cui la scuola, megafono della propaganda di Stato, difende l’esempio di partigianeria socialista e laboriosità operaia, il ragazzino reagisce alla solitudine familiare e al clima sociale oppressivo rifugiandosi in fantasticherie di apertura al grande Altro dell’Ovest interdetto, la società che, al di là della cortina di ferro, sta scoprendo l’energia trasformativa della musica dei Beatles e la bellezza conturbante di Brigitte Bardot, insieme strega che alla compagnia degli uomini preferisce quella degli animali e diva indifferente alle precauzioni e alle remore morali.

Il giovane Adam alla ricerca del padre si fa prendere per mano dai Beatles e da B. B.

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Come già per il suo film forse più celebre, Il giardino delle delizie (2004), tratto dal romanzo Metaphysics, da lui stesso scritto, anche per il suo ultimo lungometraggio Lech Majewski (Katowice, 1953) sceglie di partire da un suo testo, questa volta d’ispirazione autobiografica, per scolpire un percorso d’iniziazione all’età adulta ispirato al modello dell’epica omerica: Adam è un novello Telemaco alle prese con la nostalgia del padre – un’idea più che un uomo in carne e ossa – e con il desiderio di affrancarsi dalla bolla per lanciarsi nel mondo. Mondo vagheggiato alla stregua di un Paese delle meraviglie che, nel corso dell’avventura dell’individuazione, il protagonista esplorerà tenuto per mano da idoli ‘archetipici’, artisti o intellettuali, depositari di saggezza o di elettriche inquietudini esistenziali, aiutanti dell’eroe in formazione che ha bisogno di farsi grande separandosi dalla madre-grembo, la sua terra natale, e di entrare nel regno del padre, l’istanza civilizzatrice del taglio separatore, dell’atto di nominazione che determina la partecipazione al gioco individuale della vita. Perché quel che Adam sta cercando di fare non è recuperare il padre in sé stesso, ma diventare il padre di sé stesso, soggetto di un desiderio singolare che possa rivendicare come suo. 

Majewski, maestro che si è formato da artista visivo e che rivela il suo retroterra formativo nell’immobilità pittorica con cui spesso calcifica il dinamismo proprio del medium cinematografico, anche questa volta realizza un’opera che, in continuità con le precedenti, sdoppia i piani d’accesso alla sua fruizione: la prima parte aderisce a codici naturalistici nel rappresentare alcuni momenti di un’infanzia indispettita di fronte all’indottrinamento; la seconda oltrepassa l’impostazione realistica per abbandonarsi alla visionarietà allegorica di un viaggio all’interno di una dimensione dislocata nella surrealtà, più simbolica che onirica, in cui il Bildungroman del protagonista può cominciare.

Brigitte Bardot Forever: valutazione e conclusione

Il rifiuto di rappresentare la realtà qual è nella sua concretezza, nella sua percettibilità e riproducibilità, in questo film autobiografico che nega che una vita possa scriversi soltanto attraverso memorie di un passato vissuto, e dunque che il racconto di una vita possa esaurirsi nella documentarietà, assume i caratteri di un messaggio politico di resistenza, di reazione ai dettami costrittivi di quello che fu il realismo socialista e che oggi potremmo definire il totalitarismo di un reale rotondo, senza mediazioni, senza aperture al simbolico. Nel suo cinema, Majewski, che è (stato) bambino insofferente alla dottrina della Polonia solerte ancella dell’Unione Sovietica, moltiplicatrice di scuole e di fabbriche, si ricava uno spazio di dissidenza radicale di fronte alla riduzione del reale a ciò che semplicemente c’è e si vede, al mito della fattualità – e della fattività – che, nella visione presuntuosamente ‘condivisibile’ di un’ipotesi di realtà, annulla la sensibilità per sua natura distorta dell’eccentricità singolare. Con strumenti peculiari dell’arte figurativa, la cui influenza è prevalente rispetto alla disciplina di scrittura drammaturgica, Majewski paradossalmente trasfigura nel fantasy l’iperrealtà di un’esistenza (la sua) che, nel tempo insieme lontano ed eternamente presente (nell’inconscio) dell’infanzia, si è sentita troppo stretta e manchevole per non cercare riparazioni, per restare così com’era. 

Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 2

2.6