Bif&st 2020 – Marco D’Amore: “Ciro Di Marzio continua a sorprendermi”
L’attore ci ha parlato della sua esperienza alla regia con L’Immortale, del suo annullarsi nei personaggi che interpreta, delle tante infanzie condannate a una vita criminale come il “suo” Ciro Di Marzio, delle critiche a Gomorra e delle sue speranze per il futuro.
Abbiamo incontrato l’attore e regista Marco D’Amore al quale il Bif&st – Bari International Film Festival ha consegnato il Premio Ettore Scola per il miglior regista opere prime e seconde per L’Immortale, spin-off della serie Gomorra della quale D’Amore è protagonista indiscusso nel ruolo ormai cult di Ciro Di Marzio. Panni che, per la gioia dei fan, tornerà a vestire nella quinta stagione della serie.
Un anno molto importante per te questo, pandemia a parte: grande successo di pubblico per il tuo film per il quale hai ricevuto il Nastro d’Argento come migliore regista esordiente e adesso anche il Premio Ettore Scola …
Marco D’Amore: “È ovvio che i riconoscimenti vanno a chi li riceve, però, dietro il mio lavoro è innegabile che ci sia stata una partecipazione di talenti che ha sostanzialmente sopperito ai miei limiti e alle mie mancanze e quindi è la ragione per cui io sto qua a poter dire che ho fatto forse un buon film, soprattutto merito del talento altrui. Quindi da quel punto di vista io ricevo il premio, ringrazio ma so che nel momento in cui lo ricevo lo stanno consegnando a tutti quelli che hanno lavorato con me e per me. Sono contento nello specifico di stare a Bari perché questa città fa parte proprio della mia formazione, io la frequento da più di 20 anni, ho cominciato col teatro qui, è una delle prime grandi città in cui ho debuttato. Ci sono tornato tantissime volte e questo festival mi ha chiamato a sé in tempi non sospetti, quindi, ricevere un premio a Bari è motivo di gioia oltre che per il film per il fatto di poter festeggiare insieme quello che è stato”.
“Conosco bene Ciro Di Marzio ma continua a sorprendermi”
Ne L’Immortale “Marco ha diretto Ciro” che è il personaggio che ormai ti accompagna da tanti anni: com’è stato vederti in un certo senso allo specchio e dirigerti?
Marco D’Amore: “Ho fatto una grande opera di distanziamento, a parte che lo faccio sempre, però rispetto al lavoro che vedo fare in generale e di cui apprezzo tante cose, io vengo da una scuola per cui prendo una totale distanza dal personaggio. Per me gli attori non dovrebbero proprio esistere quando si rappresenta, ci dovrebbe essere il personaggio e l’attore dovrebbe scomparire, sottraendo continuamente e togliendo tutto, soprattutto al cinema dove davvero un occhio può essere un paesaggio. E quindi prendere questa distanza è stato necessario. Poi ti confesso che il lavoro è stato talmente duro, talmente importante, con una responsabilità così forte che io attraversavo la scena, non mi sono mai concesso dei tempi lunghissimi, anche perché fortunatamente questo è un personaggio che ho costruito nel tempo, che conosco bene, ne governo ormai le reazioni, è vero che continua a sorprendermi però fa parte di me”.
L’Immortale racconta le origini di Ciro di Marzio di Gomorra, un bambino in un certo senso prodigio che però utilizza questo suo talento a servizio del male. Cosa pensi dei tanti ragazzi, non solo a Napoli ma in tutto il mondo, che hanno il potenziale per fare qualcosa di buono per sé stessi e per la società ma, invece, scelgono la via del male?
Marco D’Amore: “Di racconti di infanzia ce n’è di strepitosi e sicuramente molto più importanti, degni e belli del mio. Mi ricordo un film meraviglioso che si chiama Bronx che racconta di un’educazione criminale: c’è una battuta meravigliosa che il padre De Niro dice al figlio, dice: “Ricordati che uno dei delitti più grandi è il talento sprecato”. È una frase importante però contiene secondo me anche un certo tipo di amarezza perché il fatto che un padre la demandi a un figlio è anche una denuncia che, forse, lui quel talento non è in grado di gestirlo, non è in grado di sostenerlo. Ed è quello che succede troppo spesso nei Sud del mondo dove il talento è sorgivo, zampilla, è davvero travolgente, però molto spesso questo talento è abbandonato, non gli vengono offerti gli strumenti per essere dosato, per essere amministrato, per essere messo alle prese con qualcosa che lo faccia esplodere. E quindi si brucia, si spegne e quelle persone di talento a un certo punto diventano tutt’altro, qualcuno diventa manovalanza di qualcosa, qualcuno si spegne in vite molto tristi. Però questo ha molto più a che fare, secondo me, con l’amministrazione della nostra società, forse con una mancanza di lungimiranza per cui non si pensa che questa infanzia abbandonata un domani non potrà che diventare nemica”.
Leggi la recensione de L’Immortale
Ma cambierà mai qualcosa?
Marco D’Amore: “È la domanda dei tempi: se leggi la letteratura greca, c’era un certo tipo di ragionamento sull’infanzia, nel Rinascimento l’infanzia era qualcos’altro, sono punti di vista, però è pur vero che c’è a un certo punto un cambiamento radicale che secondo me nel nostro Paese coincide più o meno con l’Unità, quindi la metà dell’800, in cui c’è stato uno scollamento fortissimo tra la formazione, l’istruzione e la vita reale. Non lo so se cambierà, nutro questa speranza e devo dire che sono abbastanza nichilista ma questo è il mio modo di vivere, quindi, faccio mio il detto napoletano che recita: “Chi vive ‘e speranza disperato more”. Mi piacerebbe molto che più che le speranze fossero offerte possibilità”.
Marco D’Amore: “L’attore dovrebbe scomparire, ci dovrebbe essere solo il personaggio”
A chi, in riferimento a Gomorra, parla di pericolo di emulazione cosa rispondi?
Marco D’Amore: “Sostanzialmente non rispondo perché, lo dico con grande superbia, mi sento assolutamente troppo in là da un punto di vista intellettuale per rispondere ad una bestialità del genere perché non esiste racconto che non ponga al centro il conflitto. Allora bisognerebbe bandire 700 anni di letteratura: il teatro elisabettiano è solo re sanguinari, traditori, uxoricidi, per non parlare della tragedia. Il conflitto è il racconto di quello che potrebbe avvenire, è lo specchio della società, è l’approfondimento dei lati bui senza il quale non esiste narrazione. Oggi purtroppo si confonde rispetto a questo anche la commedia. La commedia è il grado zero della tragedia, perché se tu ridi di uno che cade su una buccia di banana tu sei considerata bastarda perché lui si è fatto male. E non a caso questo premio che ricevo è intitolato a Ettore Scola che è uno che ha raccontato solo attraverso il cinismo la comicità, ovviamente per farlo devi essere colto e intelligente perché devi governare i sentimenti e devi prendere una distanza altrimenti non puoi farlo. Non a caso non essendoci più queste personalità secondo me oggi la nostra è una commedia becera, è una commedia di personaggi, di micro situazioni che non ha quel retrogusto amaro, quell’acidità che ha reso famosa nel mondo la commedia all’italiana che forse erroneamente si considera con superficialità. Quella è stata una commedia che ha raccontato con grandissima lucidità tutto il peggio del nostro Paese, dalle classi sociali più basse a quelle più alte”.
Da regista in futuro che cosa vorresti dirigere?
Marco D’Amore: “Ti dico la verità: non lo so. Tra l’altro io non sono un regista. Paolo Sorrentino è un regista, Matteo Garrone è un regista, Nanni Moretti è un regista, Pietro Marcello è un regista. Io sono uno che vuole raccontare delle cose e sta praticando su sé stesso un esercizio continuo da anni che mi consenta di farlo, di raccontare le cose attraverso più bocche perché io voglio poter recitare, voglio poter dirigere, voglio poter scrivere, voglio poter produrre, voglio poter danzare, voglio poter cantare. Magari non ci riuscirò mai però quello è il mio intento perché è la mia natura e provo ad assecondarla. Ripeto, non è detto che ci riesca mai ma non sono un regista e lo dico nel rispetto di chi lo è profondamente. Io potrei passare altri dieci anni a scrivere o a interpretare dei ruoli e non mi mancherebbe affatto dirigere perché significherebbe che è frutto di una scelta consapevole”.