Gundala: recensione del film indonesiano
Primo capitolo dell'universo cinecomic indonesiano, Gundala ci catapulta in una Giacarta politicamente corrotta e malata, bisognosa di un supereroe che ristabilisca la giustizia.
Anche l’Indonesia ha (finalmente?) il suo supereroe di riferimento, alternativo allo strapotere Marvel e DC americano. Trattasi di Gundala, nato da un fumetto appartenente alla più famosa casa editrice indonesiana di letteratura grafica, Bumilangit. Con un precedente alle spalle (Gundala Putra Petir del 1981, ovvero “Gundala figlio del lampo”) e un futuro radioso davanti a sé. Perché – sulla carta – il film di Joko Anwar apre le porte ad un Cinematic Universe in cui sono già stati pianificati film fino al 2025, compreso ovviamente un seguito di Gundala.
Considerando però il “discreto” successo al botteghino indonesiano (un milione di spettatori) resta da capire quanto il pubblico sia veramente interessato ad un progetto a lungo termine, e quanto invece preferisca rifugiarsi nella certezza della produzione orrorifica – uno dei guilty pleasure nazionali – alla Impetigore, anch’esso in concorso al Far East Film Festival 22 e diretto tra l’altro dal medesimo Anwar, maestro dell’horror a caccia di nuovi spunti e nuovi stimoli creativi.
Gundala: Supereroi contro le forze del male
Bastano questi pochi elementi per capire come Gundala sia un’opera estremamente ambiziosa e che si prende dannatamente sul serio, a differenza ad esempio (sempre per restare in ambito asiatico) del parodico e scanzonato Gagamboy di Erik Matti. A metà tra Thor e Iron Man, la pellicola di Anwar narra la genesi del paladino di Giacarta fin dalla più tenera età, quando cioè è costretto a fuggire restando orfano di padre e madre. I cinecomics ci insegnano da sempre che si diventa eroi per caso, e lo stesso accade per il protagonista Sancaka, che viene ripetutamente colpito dai fulmini durante una tempesta.
Come spesso accade coi prodotti orientali, c’è molta e troppa carne al fuoco, in un patchwork di generi e sollecitazioni che rischia di disorientare. A Gundala avrebbe giovato una maggior linearità, a costo anche di cadere nel banale, perché sviluppando troppe trame e sottotrame si va inevitabilmente incontro al rischio da un lato della noia e dall’altro del ridicolo involontario. La salvezza arriva anzitutto dal comparto tecnico e dalle coreografie dei combattimenti in cui si fa ampio sfoggio del silat, l’arte marziale indonesiana già ammirata nel dittico The Raid (Redenzione, 2011, e Berandal, 2014).
“Chi sei?”, “Sono il popolo”
Il vero cuore pulsante di Gundala, tuttavia, è la critica alla diseguaglianza e alla corruzione dell’Indonesia. In modo alquanto superficiale (o, meglio, introducendo approfondimenti che poi non vengono degnamente sviluppati) si affronta la necessità della difesa dei propri diritti, nel momento in cui la politica ha risaputamente forti connivenze con la malavita che schiaccia e ostracizza gli ultimi relegandoli all’invisibilità civile e sociale. Ancora bambino, Sancaka si sentirà dire dal suo primo maestro “Non fidarti dei ricchi”, e applicherà per tutta la sua vita quell’insegnamento.
Il fatto che il villain di turno, Pengkor, abbia a sua volta avuto un’infanzia complessa fatta di soprusi e abbandoni, rende la dicotomia fra buoni e cattivi più complessa e articolata: se le vittime si fanno la guerra tra loro, continuano a fare il gioco dei potenti oppressori; se si uniscono, possono ristabilire la moralità e la giustizia. Tutto questo resta perlopiù in nuce e nelle intenzioni di un film che fatica a reggere il peso delle sue stesse alte aspirazioni, ma di cui si apprezzano il coraggio e l’incoscienza produttiva.