Cannes 2017 – Happy End: recensione del film di Michael Haneke
Una famiglia disfunzionale è la protagonista del nuovo dramma di Michael Haneke, un film che si lega indirettamente ad Amour senza tuttavia ricalcarne compiutezza e profondità.
Michael Haneke, torna in concorso al Festival di Cannes – dove nel 2012 ha conquistato la Palma d’Oro con il suo struggente Amour – con Happy End, antitesi del film succitato, col quale mostra un legame di (dis)continuità. Riportando in auge le tematiche care alla sua intera filmografia, il regista austriaco si affida ancora una volta alla musa Isabelle Huppert, per condurre le danze scoordinate di una famiglia disfunzionale, in cui i rapporti umani appaiono sfilacciati ed inconsistenti.
Un affresco luminoso, in antitesi con i non-sentimenti messi in scena, in cui una ragazzina di tredici anni, Eve (Fantine Harduin) si troverà – in seguito al ricovero delle madre in ospedale, causato da un’overdose di farmaci antidepressivi – a ricongiungersi con la famiglia allargata del padre Thomas (Mathieu Kassovitz), composta dalla nuova moglie Anaïs, il loro bimbo neonato, la zia Anne (Isabelle Huppert), il nonno George (Jean-Luise Trintignant) e l’instabile cugino Pierre, l’unico a mostrare apertamente le proprie nevrosi e per questo motivo di vergogna agli occhi di una famiglia di imprenditori borghesi, per definizione gente “per bene”.
Eve sembra essere quella che – insieme al nonno – possiede lo sguardo più lucido e disincantato sul mondo, gestendo la totale disillusione e mancanza di aspettative di amore e felicità, prendendo atto della realtà in cui è immersa per mezzo di video fatti al cellulare, con i quali anticipa e riprende la rassegnazione che la circonda, in cui il “lieto fine” ha più a che fare con la liberazione che con il raggiungimento della felicità.
Happy End: Michael Haneke mette in scena l’ altra faccia di Amour
Con l’opera vincitrice della Palma d’Oro alla 65esima edizione del Festival di Cannes, Happy End condivide più di un aspetto. Il patriarca della famiglia protagonista del nuovo film sembra incarnare la versione borghese – e ancora psicologicamente centrata – del protagonista del film del 2012, divenuto depresso e stanco di vivere dopo aver vissuto il dolore della morte della moglie, che ha aiutato a morire dopo una lunga e devastante malattia.
Il problema è che il nuovo film di Haneke di nuovo mostra ben poco, se non un dilagare a macchia d’olio del sentimento universale di sconforto che caratterizza le altre sue opere, qui preoccupantemente allargato ad un personaggio ancora all’alba della propria esistenza, che si sente già sconfitto e senza speranza, immerso in un microcosmo in cui ognuno pensa per sé e la responsabilità è un concetto del quale preoccuparsi solo in ambito lavorativo, per non perdere faccia e denaro. Sullo sfondo delle vicende narrate, l’avvento ulteriormente estraniante della multimedialità e la crisi europea dei migranti che – nonostante gli enormi e tangibili problemi – si trovano obbligati a sostentarsi soddisfando i futili capricci di ricchi incastrati nelle proprie personali infelicità, nonostante il benessere che li circonda.
Happy End si mostra quindi come un’amara conferma del sentire rassegnato del regista, questa volta reso con un pizzico di umorismo cinico che guarda dall’alto chi ancora si affanna per trarre del buono da un’esistenza che vede nel suo lieto fine solo il coraggio di mettervi un punto.
Un’opera senz’altro interessante ma che rimarca un messaggio già formulato, centrata sulle conseguenze di azioni che spesso non vengono nemmeno mostrate, ribadendo ancora una volta quanto poco valga la pena concentrarsi sulle caratteristiche di singole gesta umane quotidiane, tutte destinate allo stesso traguardo.
Happy End verrà distribuito in Italia da CINEMA; nel cast anche Toby Jones, Lawrence Bradshaw e Loubna Abidar.