LFF16: Paradise – recensione del film vincitore del concorso
Il film Paradise dell’iraniano Sina Ataeian Dena ha vinto la prima edizione del concorso dei lungometraggi del Lucca Film Festival e Europa Cinema 2016 come miglior film. La giuria è stata composta dal produttore Palo Branco, dalla regista Susanna Nicchiarelli e dal critico cinematografico Claudio Bartolini. Inoltre, durante la premiazione del festival, è stato conferito un ulteriore premio dalla giuria: una menzione speciale a “French Blood” di Diastème, “per la capacità di adottare uno sguardo contemporaneo su problematiche complesse che fanno parte non solo della realtà francese, ma della nostra quotidianità sociale”. Paradise vede alla co-produzione il fratello di Jafar Panahi, regista di Taxi Teheran (Orso d’oro alla Berlinale): la pellicola ricorda molto quest’ultimo film per la medesima clandestinità del girato, senza permessi e con immagine trafugate e celate sotto il velo documentaristico: in qualche modo, per sfuggire alla censura, il regista finse di girare un documentario nelle scuole della periferia di Teheran.
Paradise con i suoi toni sommessi e celebrativi, orbita attorno alla vita di una donna, Hanieh (Dorna Dibaj), che vive in uno stato di quiete forzato e rispettato. Ha 25 anni, non è sposata, porta lo hijab senza soffrirne realmente il peso del tessuto sul capo, è una maestra rispettabile in un contesto deprecabile: ma deprecabile per chi? E rispettabile a chi? La venticinquenne Hanieh ha perso entrambi i genitori e vive con sua sorella incinta, insegna in una scuola nella periferia di Teheran e soffre i continui viaggi che è costretta a compiere quotidianamente per andare a lavoro, che la separano da una sorella che avrebbe molto più bisogno della sua vicinanza. Sicché chiede e si propone per un eventuale trasferimento, molto difficile da ottenere, soprattutto verso una zona centrale della stessa capitale: le carte sono tante, la burocrazia un’eterna faida. La luce che è nei suoi occhi, già calpestata e arginata, desiste fino a scomparire quasi del tutto nel momento in cui si rende conto di quanti disagi e quanti pericoli corrono quelle bambine a cui insegna una materia a noi ignota. Il giorno in cui scopre che due allieve non sono presenti, aleggia l’ipotesi che possano essere state rapite, e senza alcuna angoscia o sgomento le giornate non perdono il loro ritmo, proseguono e si ripetono una uguale all’altra. Quelle bambine, con indosso lo chador, vengono mostrare in molte scene in un cortile in file molto asfittiche, intente a recitare le lodi di Allah, ad ascoltare i giudizi e i rimproveri della preside della scuola, che si interpone alle ore scolastiche dal suo podio come un duce, e loro, come delle ignare bambine balilla, soffrono le leggi dispotiche della scuola e della sua tradizione.
Paradise: una storia tragica che ha saputo conquistare i giurati del LFF16
Paradise vive di una scissione interna, tende per due direzioni, senza però perseguirle realmente. Non ha alcuna intenzione di criticare, osannare, rimuginare o esaltare i lati oscuri di una nazione forgiata e oscurata dall’ayatollah, ma ne mostra i dissidi e le voragini lasciando ultima parola allo spettatore che in qualche modo contribuisce alla chiusura del film. Paradise non vive di picchi, ma è figlia di una rotondità che ritrova le sue geometrie nella cultura islamica che l’Iran di Ahmadinejad ha profondamente insultato. Qui non c’è traccia di quel fanatismo apologetico di cui si sente parlare troppo spesso, ma la teologia politica dell’Iran è al centro di un dibattito sul quale il regista Sina Ataeian Dena non vuole che cali un silenzio assordante. La pellicola si inserisce nel frastuono di un paese che ha rinvigorito le sue volontà, si è ribellata, è andata contro se stessa per il suo bene e per il bene di chi conosce esattamente il peso delle catene. Paradise purtroppo ci offre una diversa prospettiva, quella in cui la rivoluzione non è ancora riuscita, le periferie sono accerchiate da chi non ha ottenuto un cambiamento e che, con grande frustrazione, sembra non cercarlo nemmeno. Non c’è parossismo, ma c’è una sorta di meditazione silente, ciò che passa per la testa di Hanieh non ci è dato saperlo, e non ci è dato nemmeno immaginarlo poiché il suo volto è vacuo e inespressivo come un verso non scritto del Corano. Il prologo del film si scompone in un intermezzo discorsivo, schermo nero, solo due voci, due donne che discutono sul modo di vestirsi, cosa coprire e cosa poter tenere scoperto. Non si comprende bene la sua posizione, ma si coglie davvero a tratti sottilissimi che qualcosa di quelle regole dettate dal siffatto pudore non le vanno giù, ma le rispetta con quella che potremmo definire una pacata desolazione. Le uniche presenze filmiche che portano avanti una loro sottrazione al dominio sono proprio le bambine della scuola, esseri anonimi ma determinanti, futuro di una nazione che vuole reagire: quelle creature, sebbene inconsciamente, a loro modo serbano la volontà di disobbedire, e ciò avviene con piccoli atti innocenti, quali colorarsi le unghie, voler giocare a calcio (che è uno sport solo maschile), fino a lasciarsi andare e liberarsi attraverso canti e balli che avvengono nell’autobus che le riporta a casa, senza il timore di essere viste e quindi punite.
Ma le domande che si addensano nella mente dello spettatore sono svariate: perché mostrare i rapimenti delle bambine senza davvero poi perseguire e concentrare le attenzioni su quel tipo di disagio che le periferie di Teheran soffrono in particolar modo? Perché realizzare un documentario che non vuole essere un documentario con il desiderio di descrivere la violenza e le imposizioni sul mondo femminile ma senza mostrare realmente quanto esso possa essere logorante? Pur rimanendo serrato in una staticità di narrazione, Paradise resta un film necessario, che dà comunque la percezione che ci sia qualcosa di prioritario da raccontare, un’impellenza che riesca a far luce sempre in modo nuovo, diverso anche se conflittuale e non sempre ben accetto, su una piccola parte di mondo in cui convivono le contraddizioni di una nazione in eterna rinascita, da un lato la tradizione, dall’altra la libertà, da un lato il controllo, dall’altro l’espressione. “Lo hijab non è un’imposizione, è una protezione” recita una scritta all’interno della scuola. La protagonista convive con tutto ciò, sembra inizialmente riuscire davvero a sovvertire quella claustrofobia ma poi, una volta comprese le regole e di come sia difficile sopravvivere in quelle stanze, si reclude in un sonno triste e aleatorio che non ritiene sicuramente giusto, ma da cui è quasi impossibile ridestarsi.