Venezia72 – il film d’apertura e il confronto con il passato
Baaria. Il fondamentalista riluttante. Frida. Espiazione. Birdman. No, non sono solo rappresentativi di un genere o portatori sani di quella rara affezione che è la genialità. Hanno una moltitudine di cose in comune, ma una in particolare.
Hanno saputo squarciare per primi i tendaggi ormai settantennali della mostra del cinema di Venezia. E a solcare l’uscio della 72ma edizione, è stato Everest, un film alto e rarefatto, ma solo per tematiche percettibili. Bisogna saperlo dire, quando l’attenzione, il prestigio sono le cose che seducono tanti pellegrini a saltare il ponte immaginario tra cinema di massa e massa critica, l’ustione che ne comporta può essere letale. Di certo il pubblico in sala, o meglio del lido, non è e mai sarà lineare e rispettoso. Il silenzio cosiddetto religioso ormai appartiene ai ricordi, quando i nostri nonni si ritrovavano al partito per ascoltare il tg. Everest, oltre che a deludere come atto intrinseco della composizione performativa ha avuto l’onere di dover sagomare il terreno, un orso polare che lascia il segno sulla neve appena posata. Ma cos’è che ha suscitato realmente lo stato dubitativo delle anime dei presenti?
Venezia72 – quando l’apertura non è all’altezza
Prima risposta possibile: la pellicola non doveva aprire la mostra. L’ordine cronologico in questo caso specifico ha un peso determinante, poichè riguardandosi le aperture precedenti, buona parte di esse poi hanno trionfato agli Academy, si ha la sensazione che non c’è una coincidenza provvidenziale.
Altra risposta appetibile: il film avrebbe potuto nobilitarsi se si fosse avvicinato più all’idea Into the wild, un ulisse in atto, quotidiano, che sconfina e impara ad oltraggiare i limiti, suoi e bucolici. Ma la pellicola rimane bloccata nelle demarcazioni stilistiche, appartenente ad una linea che ha sempre trovato il modo di reinventarsi, da La tragedia di Pizzo Palù a Cliffhanger.
L’unica verità effettiva è che gli occhi della memoria sanno come essere spietati. Una memoria che ha la pelle d’oca, una memoria che ride, contingente, controversa, assorta in un rito drammatico che si apre, protende, ti tocca e ti percorre, scala, avvinghia la vita due volte e opprime. L’impronta storica delle precedenti proiezioni è una nostalgia che non si sarebbe dovuta provare in quel di Venezia72.