Visioni Fuori Raccordo: The First Shot vince la decima edizione
È The First Shot il di Yab Cheng e Federico Francioni il film che trionfa alla decima edizione del Visioni Fuori Raccordo
Si è conclusa ieri la decima edizione del Festival del Documentario di Roma Visioni Fuori Raccordo dopo una settimana di proiezioni con opere sia italiane che internazionali e di incontri con gli autori. Grande successo in particolare per l’anteprima italiana della canadese The Prison in Twelve Landscapes e per la biografia del campione Jacques Mayol Dolphin Man presentata assieme al regista greco Lefteris Charitos e allo storico cameraman subacqueo Pippo Cappellano.
A vincere questa edizione è The First Shot di Yan Cheng e Federico Francioni. Già premiato come miglior film al concorso internazionale della 53sima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, The First Shot racconta la prima generazione cinese nata dopo le proteste di Piazza Tienanmen ed è il primo lungometraggio dei due registi che avevano già collaborato per Tomba del Tuffatore (2016, 30 min.), apprezzato in numerosi festival italiani e presentato in anteprima al Bellaria Film Festival dove ha ottenuto una menzione speciale.
A consegnare il riconoscimento durante la cerimonia conclusiva è stata la giuria composta dal regista Daniele Vicari, l’attrice Valentina Carnelutti e il giornalista Roberto Silvestri. Questa è la loro motivazione:
«Cosa vedi attraverso la video camera?» chiede uno dei tre protagonisti agli autori. Quello che vediamo noi, che questo film ci mostra senza giudizi, senza pregiudizi, coraggiosamente e per di più con un’estetica coerente, mai formale. Silenzi, fuori campo, allusioni e rimozioni. Ma anche dettagli, eloquenti, una foto scattata con il telefono prima di spegnere, un mattone aggiunto a una catasta in rovina, un tic agli occhi che sorge a contatto con il proprio passato. E i protagonisti generosamente finiscono per rivelarsi. Accostamento di immagini e fatti, cuciti con cura, senza inganni, e con la sincerità di uno sguardogiovanissimo, che dialoga con un’altra gioventù. «Non ho messo il passato nel mio futuro», questo film ci mostra come sia possibile
Oltre a vincere il Premio al Miglior Documentario offerto da AAMOD – Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico e consistente in tre minuti di materiale d’archivio del valore di 4.500 euro, The First Shot ottiene un secondo riconoscimento, il Premio Cinema del Reale: il film sarà invitato e premiato alla XV edizione del noto festival pugliese del noto festival pugliese diretto da Paolo Pisanelli. Pisanelli ha scelto l’opera di Francioni e Cheng fra i nove film italiani in concorso “per la capacità di raccontare con efficacia e raffinatezza compositiva le grandi trasformazioni che spingono velocemente la società cinese, le nuove e le vecchie generazioni”.
La giuria di questa decima edizione ha voluto rendere omaggio a due film in concorso molto diversi tra loro per tematiche e stile con una Menzione Speciale.
Waiting for Giraffes di Marco De Stefanis, già presentato in anteprima mondiale all’ultimo Festival Internazionale di Documentario di Amsterdam IDFA e proiettato al festival venerdì 17 novembre al cinema Apollo11 di fronte a una sala piena. Il film sul veterinario dell’unico zoo palestinese ha conquistato sia gli spettatori che la giuria. Questa è la sua motivazione:
“La giuria assegna una menzione speciale a Waiting for Giraffes di Marco de Stefanis perché è un esempio di “cinema del reale” che cambia la vita e dà qualche risposta: fa entrare in Europa un pezzo di civiltà araba e fa star meglio anche gli animali. Sa raccordare il mondo complesso dello Zoo, come fosse Wiseman, al conflitto più interminabile, e complicato, dei nostri tempi. E così la Palestina, da imprigionata, diventa un po’ più libera, e quasi ci irretisce”
Prodotto dalla storica scuola di cinema documentario Zelig e girato tra le mura di casa e un allevamento di cavalli, The Good Intentions di Beatrice Segolini e Maximilian Schleuber è il seondo film a ottenere la Menzione Speciale:
“The Good Intentions è un film fragile e a suo modo unico: entrare così tanto nell’intimità della propria famiglia con la camera è una delle cose più difficile da fare per un cineasta. L’autrice, scavando nel complesso rapporto con il padre, utilizza il cinema come strumento di analisi familiare e autoanalisi, strumento che aiuta la famiglia intera ad affrontare nodi e traumi resi inestricabili dal tempo e dal dolore rimosso. Così l’intimità messa a nudo dell’autrice trova nella onnipresenza della camera un chiaro punto di caduta emotivo che rende la riflessione sul patriarcato necessaria, profonda, per nulla oscena o ideologicamente orientata: il desiderio, forse illusorio, di sanare una ferita”