Cannes 2017 – A Beautiful Day (You Were Never Really Here): recensione
Un intreccio narrativo confuso penalizza il grande stile registico di Lynne Ramsay e l'ottima prestazione attoriale di Joaquin Phoenix, qui nei panni di un sicario perseguitato da un passato di indicibili abusi e violenze.
Il concorso di Cannes 2017 si chiude con A Beautiful Day (You Were Never Really Here), il film per la regia di Lynne Ramsey con protagonista il poliedrico Joaquin Phoenix, qui in un ruolo complesso, a cavallo tra ferocia e disperazione, che potrebbe ambire al premio miglior attore.
Un film completamente centrato sulla vicenda privata (o meglio interiore) del protagonista Joe, un sicario professionista perseguitato da un passato confuso, fatto di abusi e violenza, che ha come unico affetto una madre molto anziana, unico appiglio per continuare a vivere.
Joe sembra non sapere perché fa questo lavoro, spinto da un istinto distruttivo che ha origini lontane ma che ancora oggi incidono pesantemente sulla sua vita, eventi che compaiono improvvisamente davanti ai suoi occhi al minimo stimolo in grado di rievocarli, in un vortice di sofferenza non elaborata che lo pone costantemente sull’orlo dell’idea di farla finita.
Joe esegue gli omicidi commissionati senza risparmiare lo spargimento di sangue, uccidendo a martellate chiunque si frapponga fra lui e l’obiettivo, fino a quando non gli viene affidato un compito diverso: non uccidere ma salvare qualcuno, una bambina – figlia di un pezzo grosso della politica newyorkese – prigioniera di sfruttatori sessuali che la fanno vivere segregata in un bordello per pedofili. Ma la questione appare più complessa del previsto e Joe si troverà coinvolto in una faccenda più grande di lui che intaccherà profondamente la sua vita privata.
A Beautiful Day – You Were Never Really Here: Joaquin Phoenix protagonista di un thriller concitato e confuso, in cui è difficile separare dentro e fuori
La piccola Nina (Ekaterina Samsov) sembra essere la proiezione del Joe bambino, vittima di violenze indicibili che lo hanno trasformato nell’uomo che è. L’involontario istinto di protezione che scatterà tra lui e la bambina si rivelerà l’unico appiglio per attribuire senso ad una vita- la sua- che Joe percepisce come completamente inutile. Parafrasando il titolo, come se non fosse mai stato qui.
Lynne Ramsey conferma la sua abilità registica, agevolata da un montaggio incalzante e da musiche intense e martellanti, in sintonia con le azioni del protagonista. Ma nonostante una messa in scena che sfiora il superbo, You Were Never Really Here fatica a trovare un suo centro narrativo, sfruttando la condizione personale di Joe (che peraltro è impossibile comprendere se non ricostruendone le dinamiche attraverso nebulosi flashback) senza riuscire ad allargare gli orizzonti della storia. Il risultato è la pretesa di avvincere lo spettatore solo con l’estetica o con la storia troppo ermetica di un personaggio verso il quale ci sono troppo pochi elementi per stabilire un legame di empatia, accontentandosi dell’intuizione per attribuire un minimo di organicità alle tante situazioni (reali e pensate) che scorrono sullo schermo.
A Beautiful Day – You Were Never Really Here: un film intrappolato nelle sue promesse e in uno stile originale ma fine a se stesso
You Were Never Really Here resta così intrappolato nelle sue premesse, presentandoci un personaggio alla Drive di Nicholas Winding Refn ma senza sfaccettarlo sufficientemente perché possa essere ricordato al di là dell’ottima rappresentazione formale. Un esercizio di stile (grande stile) che tuttavia pecca dal punto di visto dell’efficacia narrativa, lasciando una sensazione di confusione che forse potrà essere mitigata da una versione cinematografica con qualche attenzione di più al montaggio, tale da rendere maggior giustizia a questo interessante personaggio invisibile, dominato da un senso di solitudine ancestrale che- per essere superato – non può far altro che guardarsi indietro, tentando di risanare la propria infanzia compromessa attraverso quella di Nina.