Il medico di campagna: nuova clip e intervista col protagonista François Cluzet

Con Il medico di campagna François Cluzet, amato dal pubblico in Quasi amici, torna sullo schermo nei panni di Jean-Pierre, un medico di campagna devoto al proprio lavoro e dotato di una straordinaria umanità nei confronti dei suoi pazienti. Al suo fianco un’affascinate Marianne Denicourt, che condivide con lui una “vocazione”, quella del medico: prendersi cura degli altri e costruire con i pazienti un rapporto di profonda fiducia. Una storia di empatia e umanità, per la regia di Thomas Lilti, ex medico che, dopo Hippocrate, torna a raccontare la sua professione nell’emozionante film di Natale di BIM, Il medico di campagna, dal 22 dicembre al cinema.

“Prima di dedicarmi al cinema, facevo il medico – racconta il regista, Thomas Lilti. Grazie alla mia professione ho avuto modo di fare delle sostituzioni in ambiente rurale. Quegli anni durante i quali, da giovane, sono stato chiamato a fare le veci di medici di grande esperienza che esercitavano in campagna, mi hanno molto aiutato a crescere. Una volta diventato regista, mi è naturalmente venuta voglia di trasformare tutto il materiale che avevo immagazzinato in precedenza in un film. Dal punto di vista di uno sceneggiatore, la figura del medico di campagna è in assoluto tra le più romanzesche”.

“Ho sempre desiderato fare l’attore, non per recitare ma per vivere, per vivere i personaggi – afferma il protagonista, François Cluzet. Grazie a questo mestiere ho vissuto molti pezzi di vita come se fossero vite intere. L’idea di credere di essere un medico è sempre stato un sogno. Penso che siamo in molti a desiderare di avere il tipo di rapporto con gli esseri umani, con la salute, con la guarigione, con il fallimento, con tutti gli sconvolgimenti melodrammatici che offre l’esercizio della medicina”.

Sinossi

Tutti gli abitanti di un paesino di campagna possono contare su Jean-Pierre, il medico che li ascolta, li cura e li rassicura giorno e notte, sette giorni su sette. Malato a sua volta, Jean-Pierre assiste all’arrivo di Nathalie, che esercita la professione medica da poco tempo e ha lasciato l’ospedale dove lavorava per affiancarlo. Ma riuscirà ad adattarsi a questa nuova vita e a sostituire colui che si ritiene… Insostituibile?

 Il medico di campagna: intervista con François Cluzet

Cosa le ha fatto venir voglia di accettare questo ruolo di medico di campagna? Forse ha un rapporto particolare con la medicina?

Ho sempre desiderato fare l’attore, non per recitare ma per vivere, per vivere i personaggi. Grazie a questo mestiere ho vissuto molti pezzi di vita come se fossero vite intere. L’idea di credere di essere un medico è sempre stato un sogno. Penso che siamo in molti a desiderare di avere il tipo di rapporto con gli esseri umani, con la salute, con la guarigione, con il fallimento, con tutti gli sconvolgimenti melodrammatici che offre l’esercizio della medicina! E in seguito l’incontro con Thomas Lilti ha finito col convincermi: è una persona rara, con una spiccata dote per l’ascolto.

Deve essere stato un buon medico dal momento che è diventato uno straordinario regista. Ho sempre provato una grande ammirazione per quei medici che orientano il loro interesse verso il cinema, la letteratura o il teatro, Čechov in primis. È interessante osservare come un uomo di scienza possa avere il gusto per l’irrazionale. Inoltre mi incuriosiva questo personaggio, il dottor Werner, un uomo malato, che dovrebbe pensare a se stesso e sbrigarsi a cambiare contrada e invece, il suo “sacerdozio”, la sua vocazione, sono più forti di lui.

In questo senso, la professione medica è tutto sommato piuttosto vicina al mestiere di attore. Anche per noi c’è una componente di vocazione, di passione, di abnegazione che è quasi obbligatorio possedere.

Lei incarna alla perfezione il personaggio di un medico, la sua gestualità, la sua capacità di ascolto, il suo sguardo, il suo rapporto con gli altri. Come ha fatto per arrivare ad esprimere a livello così sentito un modo di essere?

È un ruolo magnifico, meritevole e delicato. Un medico malato che si occupa esclusivamente degli altri! Un autentico altruista. Il dono di sé, una disposizione essenziale anche nel nostro mestiere. Non considerare gli spettatori come degli imbecilli. Fare in modo che le emozioni siano sentite prima di essere espresse.

Un ruolo in cui rifiuta qualsiasi rapporto di seduzione, come se si impedisse di innamorarsi di Nathalie. Un vero cuore solitario…

È un medico troppo integro per aver bisogno di questo. In quanto attore anch’io diffido della seduzione. Potrei tentare di sedurre chiunque, persino lei per avere l’intervista migliore! Ma è una forma di trucco, di maquillage e assomiglia come due gocce d’acqua al narcisismo, all’egocentrismo. Nella storia del film, il mio personaggio è solo, è malato, eppure accoglie la collega sferrandole un «Ma chi l’ha mandata qui? Non è un posto per lei, lasci perdere!».

E al primo errore la sbatte fuori dicendole «Se ne vada!». Come se il mestiere contasse più di tutto il resto. E un atteggiamento che riscontriamo in tutti gli appassionati di qualcosa. Del resto anch’io sono voluto passare da attore debuttante ad artista. Avrei potuto limitarmi a desiderare soltanto una rivalsa sociale, di azzuffarmi, considerando quello che avevo vissuto, ero perfettamente in grado di rivaleggiare con certi comportamenti. Solo che ho avuto la fortuna di incontrare dei registi, soprattutto di teatro, degli attori, delle attrici, che mi hanno fatto riflettere sul fatto che l’aspetto più interessante del nostro mestiere è l’arricchimento sul piano umano, la tolleranza, la condivisione, il fare insieme una cosa.

Jouvet diceva: «Tanto vale l’uomo, tanto vale l’attore!». Seguire un percorso di artista-interprete e non di attore arrivista e individualista. Il cinema è uno sport collettivo. Se non ami lo spirito di squadra, fai un’altra cosa, altrimenti passi accanto a una miniera d’oro!

Thomas Lilti e Marianne Denicourt insistono entrambi sul contributo che ha dato al lavoro di squadra, citando le lunghe sessioni di lettura che ha fatto insieme a tutti gli attori e la sua richiesta di sopprimere ogni segno di punteggiatura nella sceneggiatura. Recita sempre in uno spirito così di gruppo?

Io vengo dal teatro dove è chiaro a ciascuno che non tutto dipende da un unico attore. A me piace solo il lavoro di squadra e penso che possiamo superare noi stessi solo se siamo insieme ad altre persone. Un attore non è in grado di farlo da solo, non è mai un individuo solo che guarda se stesso. Con Alain Françon, che era il direttore del teatro La Colline, lavoravamo a tavolino nel corso di numerose settimane. Alla fine avevamo acquisito fiducia in noi stessi e fiducia negli altri, nessuno mostrava il “suo” lavoro, ciascuno esibiva il “nostro” lavoro. Non eravamo più il genio che esce dalla lampada e illumina da solo il palcoscenico o il set cinematografico!

Ci dicevamo semplicemente: migliore sarai tu, migliore sarò io. Insieme a Marianne ci siamo capiti molto bene su questo punto e tutto quello che lei ha apportato è stato nell’interesse del film. Abbiamo entrambi il gusto di lavorare con un partner. Io credo immensamente nell’importanza del lavoro che si fa in fase di preparazione. Durante le riprese non lavoro più, mi calo nei panni del personaggio e lo vivo, preoccupandomi solo dell’atmosfera del set e dei miei partner. L’idea di sopprimere ogni segno di punteggiatura è di Peter Brook. Ci sono quindici modi di dire una battuta se elimini la punteggiatura. È tutta questione di decidere l’umore in cui scegli di pronunciarla, di giocare con lo stato d’animo.

Chi è il dottor Werner? Qual è la sua storia? Ha avuto un figlio, una compagna molto probabilmente…

Sì, non ha tendenze suicide, è più che altro uno che si lascia un po’ annegare, come capita a molte persone malate. E che, a un bel momento, decide che la sola cosa che gli interessi è di esercitare ancora e sempre la professione medica. È il superamento del sé. Magnifico! Ama le persone e il suo segreto sta in questo.

Malgrado tutto, nel momento in cui il sindaco ha l’incidente si crea un legame tra Werner e Nathalie. Lei sa come fare per curarlo, mentre lui non ne ha idea…

È vero e va oltre un semplice riconoscimento di ordine professionale. Nathalie mostra di essere competente e acquista legittimità agli occhi di lui che nel frattempo diventa sensibile al suo fascino, alla sua femminilità, al suo sorriso. Gli sforzi che lei ha fatto per diventare medico di campagna mostrano una buona dose di coraggio. E in questo senso, i due si assomigliano molto.

L’unico momento in cui il dottor Werner ha un accesso d’ira, è quando si pone un vero e proprio problema di ordine etico. Etica di convinzione, etica di responsabilità, tutto è in gioco nel caso dell’anziano signore che vuole morire a casa sua e che Nathalie, per validi motivi, vorrebbe trasferire in ospedale.

Werner è anche un medico moderno che ha compreso il significato dell’accompagnamento nel fine vita. Che senso ha trasferire un anziano signore lontano dal suo cane, lontano dalla sua casa, quando lui per primo gli ha fatto la promessa di lasciarlo morire nel suo letto e dal momento che non ci sono più speranze?

Il medico di campagna è anche un film politico che ci mostra quelle campagne francesi che si sentono abbandonate e quei medici che accettano di visitare i pazienti per 23 euro…

Certo, è anche un film politico e di denuncia sociale. Vengono dette delle verità, come la pesantezza della macchina amministrativa francese, quello che si chiama desertificazione sanitaria. Vivendo a Parigi o in altre grandi città tendiamo a pensare che i medici siano tutti borghesi ed esercitino la professione in ambulatori in boulevard Saint Germain a 150 euro a visita. Ma non è questa la situazione reale!

 Per prepararsi a questo ruolo, ha letto dei libri o rivisto dei film?

Ho fatto più che altro un lavoro introspettivo. Da bambino ho avuto la fortuna di incontrare dei medici che mi hanno salvato dall’asma e, come molte persone, mi sono spesso trovato ad affrontare malattie gravi di alcuni dei miei cari e in quelle circostanze ho visto da vicino che cos’è un uomo o una donna di medicina. Lo spirito di abnegazione. E poi mi sono anche ricordato dei cattivi medici.

Per esempio uno che si rifiutava di prescrivere una radiografia ai polmoni a un amico che glielo chiedeva da diversi mesi. Alla fine ha acconsentito dicendogli: «Scommetto una caramella che lei non ha niente». Il mio amico ha fatto la radiografia, gli hanno diagnosticato un tumore incurabile, ha richiamato quel medico e, sulla segreteria telefonica, gli ha lasciato il seguente messaggio: «Ha perso la scommessa, è lei che mi deve una caramella». L’umanità del mio amico che sa di dover morire e gli lascia queste parole semplici mi ha sconvolto. La verità è che anch’io sognavo di fare il medico, ma solo facendo l’attore si possono vivere tante esistenze diverse!