Il vero Indiana Jones è un archeologo che non ebbe la stessa fortuna: tutto ciò che sappiamo sull’uomo che ha ispirato il celeberrimo personaggio
Dalla sua prima apparizione nel film del 1981 I predatori dell’arca perduta, Indiana Jones è diventato uno dei personaggi più famosi e amati del cinema. Tornato sul grande schermo dopo quindici anni dall’ultima volta con il quinto capitolo Indiana Jones e il Quadrante del destino, l’archeologo creato dalla brillante mente di George Lucas – è ormai entrato nell’immaginario collettivo di almeno tre generazioni. In pochi sanno, però, che il celeberrimo personaggio interpretato da Harrison Ford potrebbe essere stato creato sulle orme di un archeologo realmente esistito, anche se sia George Lucas che Steven Spielberg non hanno mai confermato questa teoria.
Chi era l’archeologo che ha ispirato Indiana Jones?
Il vero Indiana Jones si chiamava Percy Harrison Fawcett. Nato il 18 agosto 1867 a Torquay, nel Devon (in Inghilterra) da padre indiano e madre inglese, a soli diciannove anni si arruolò nella prestigiosa Royal Artillery, prestando servizio a Trincomalee, Ceylon. Qui incontrò e si innamorò di Nina Agnes Patersoned, che in seguito sposò. Dopo essere entrato a far parte della Royal Geographical Society, dove studiò sia topografia e cartografia, Percy Harrison Fawcett venne assunto come topografo dai i servizi segreti britannici. La sua prima missione fu in Nord Africa.
Nel 1906, dopo anni in cui si concentrò in studi sia archeologici che geografici, gli venne incaricato di mappare la regione di confine tra Bolivia e Brasile, sempre per conto della Royal Geographical Society. Armato di taccuino, bussola e machete, si addentrò nella foresta: durante l’esplorazione sparò a una anaconda gigante lunga 19 metri, trovò sulla sua strada animali strani (come un piccolo cane simile a un gatto o a una volpe), ragni giganti, lunghissimi corsi d’acqua infestati dai piranha, oltre che insetti di vario tipo. Alla fine riuscì a compiere la sua missione, con addirittura un anno di anticipo.
Negli anni a venire, in Percy Harrison Fawcett si rafforzò la convinzione che nel Mato Grosso fosse sepolta un’antica città (che denominò Z), di cui da secoli si erano perse le tracce. Dopo aver effettuato due spedizioni a dir poco sfortunate, il 20 aprile 1925 l’archeologo partì – insieme a suo figlio Jack e a Raleigh Rimmell, da Cuiabà, attuale capitale del Mato Grosso. In una lettera destinata all’altro figlio, Fawcett scrisse: “Se non dovessimo ritornare non voglio che vengano a cercarci con spedizioni di soccorso. È troppo pericoloso. Se, con tutta la mia esperienza, non riusciamo noi a farcela, che speranza può esserci per gli altri? Ecco perché non voglio dire esattamente dove andiamo. Sia che riusciamo a salvarci e ritornare, sia che lasciamo là le nostre ossa a marcire, una cosa è certa: la soluzione dell’enigma dell’antica America del Sud – e forse di tutto il mondo preistorico – si troverà soltanto quando le antiche città saranno ritrovate e aperte alla ricerca scientifica… Che queste città esistano, lo so con certezza”.
Verso metà maggio, nel pieno della spedizione, le guide locali non se la sentirono di addentrarsi oltre nella foresta, e decisero di tornare indietro. Fawcett, suo figlio Jack e Rimmell proseguirono da soli, e da quel momento nessuno li vide mai più. Stando a quanto raccolto da Orlando Villas-Bôas – uno dei massimi esperti di civiltà indigene del Sud America, nativo del Mato Grosso – e l’esplorato danese Arne Falk-Rønne, i tre esploratori vennero uccisi da una delle tribù più pericolose, ovvero i Kalapalo. Questi prima li catturarono e poi li uccisero. I corpi di Jack Fawcett e Raleigh Rimmell furono gettati nel fiume mentre il colonnello Fawcett, considerato anziano e degno di rispetto, ricevette una degna sepoltura.