Intervista a Philippe Claudel, regista di Ti amerò sempre: “L’umanità è ciò che più conta”
Con i suoi lavori, Philippe Claudel è noto a livello internazionale. Tra i suoi film più noti, Ti amerò sempre, vincitore di un BAFTA.
In occasione del Ca’ Foscari Short Film Festival 2021, abbiamo intervistato Philippe Claudel, regista, sceneggiatore e romanziere noto per film quali Ti amerò sempre
Il regista e scrittore francese Philippe Claudel è giunto a Venezia per partecipare al Ca’ Foscari Short Film Festival 11 in qualità di giurato nel Concorso Internazionale. Durante il suo soggiorno nella città lagunare, l’autore si è seduto con noi per parlarci della sua visione del cinema, di come è stato girare un film per la TV in piena pandemia e di come, a suo parere, il mondo si stia dirigendo verso una progressiva disumanizzazione.
Dal cinema al romanzo, ha usato tanti modi per esprimere la sua creatività. Indipendentemente dal mezzo che usa, alla base pone sempre le stesse domande per capire se una storia ha quello che serve prima di dedicarci tempo e risorse?
La storia è il nesso del mondo. Un artista vive nello stesso mondo di chiunque altro. Noi rappresentiamo la realtà ed è solo il punto di vista che può cambiare. Io sono travolto da quanto accade nel mondo e cerco di riportare quel che vivo. Io voglio rappresentare il mondo ultra-contemporaneo, ma allo stesso tempo ho come base la storia dell’uomo e il suo evolversi; questo binomio crea qualcosa di unico. Avendo la possibilità di spaziare in diversi ambiti, a seconda della storia a cui penso, capisco se può essere più adatta per un libro, il teatro o il cinema.
Ha detto che scrivere libri e creare storie per il cinema è diverso, perché nel primo caso è da solo con dei fantasmi nella sua testa, mentre il cinema le permette di lavorare con l’umanità degli attori. Ha girato Le Bruit des trousseaux in piena pandemia e mi chiedevo se avesse vissuto diversamente, rispetto al passato, questa possibilità di contatto umano che lavorare a un film offre rispetto alla scrittura di un libro.
È stato molto strano, perché abbiamo girato in una città deserta durante il lockdown, indossando le mascherine. Gli attori le toglievano per recitare, ma il resto della troupe le indossava. La cosa strana è che mesi dopo aver finito le riprese, quando abbiamo tolto le mascherina, ho incontrato persone che mi dicevano: “Philippe, abbiamo lavorato insieme!”, ma io non li riconoscevo per via delle maschere. Penso che ci siamo resi conti che, a parte i rapporti umani, la cosa importante non è solo la parola, quando si comunica, ma anche le espressioni, cosa puoi trasmettere con il viso. La domanda che più mi pongo non è legata al cinema, ma come si farà nella vita quotidiana a innamorarsi di nuovo. Non mi riguarda perché sono sposato e amo mia moglie, ma penso ai giovani. Come fanno a relazionarsi, visto che le mascherine sono sempre presenti? Tutto avviene solo con lo sguardo, non ci sono le situazioni sociali, i luoghi di ritrovo dove poter ballare e incontrarsi. Una cosa buffa è che molte coppie, che stavano assieme da anni, sono stati costretti a convivere e hanno finito per divorziare. Penso che sia un fenomeno umano da analizzare, perché è molto strano.
Nelle sue opere è spesso presente il tema della disumanizzazione. Penso ovviamente al libro Inhumaines, ma lo analizza anche al cinema, spesso attraverso l’immagine della prigione, in film quali Ti amerò sempre. Dopo questa pandemia, come è cambiata la sua visione del mondo, se è cambiata? È ancora convinto che stiamo andando verso un disfacimento culturale? O crede che l’essere umano possa in qualche modo ripartire?
Da una parte sono molto ottimista e dall’altra molto preoccupato. Alcuni giorni sono felice, a volte guardando meglio il mondo sono molto preoccupato. Sono contento che hai citato Inhumaines, perché lì prendo delle situazioni e le ingrandisco un po’, creo delle caricature, ma non siamo troppo lontani dalla realtà. Credo che questo sia un momento di umanità che è interessante analizzare. Ho l’impressione che l’essere umano non si accontenti più di essere solo umano, ma che punti a essere qualcosa di più, un super-umano. Basti pensare alla questione biologica e i dibattiti sul genere. Biologicamente ci sono il sesso maschile e il sesso femminile, ma oggi una parte di pensiero è convinta che questi due sessi siano delle invenzioni culturali e sociologiche. È vero che ci sono alcune persone che nascono in corpi di uomini sentendosi più donne o viceversa, ma sono una piccola percentuale. Oggi ci sono tanti gruppi molto forti e aggressivi che sostengono che questo riguardi molte più persone, che finalmente il genere non esista più, e che bisognerebbe introdurre un terzo genere o un nuovo genere. Trovo tutto questo molto strano. Penso che ci siano sempre meno dibattiti su idee e sempre più confronti ideologici. Molte persone non accettano che altre persone non siano d’accordo con loro e provano a imporre il proprio punto di vista spesso in modo molto aggressivo. Sia dal punto della sessualità, che dell’alimentazione e della religione, sembra un’evoluzione verso una forma di fascismo del pensiero. Dialogare diventa sempre più problematico.
Quest’anno è al Ca’ Foscari Short Film Festival come giurato. Non si tratta quindi solo di godersi le opere, ma anche valutarle. Quando legge un libro o vede un film, lo fa con l’occhio di chi è a sua volta un creatore di storie? Le due dimensioni di autore e spettatore convivono quando si trova di fronte a un’opera?
Io lo vivo come un semplice spettatore. Dimentico tutto ciò che ho fatto e che sono. Mi concentro sul fatto che [un’opera] riesca a catturare la mia attenzione e a trasportarmi in un viaggio. Se comincio a pensare alla tecnica, è un cattivo segno. Significa che alla fine non sono molto preso dalla storia e dai personaggi, quindi comincio a riflettere sul montaggio, la luce, gli attori, e non è un buon sogno. L’umanità è ciò che più conta.
Un ruolo chiave nel cinema, ma anche nell’editoria, lo ricopre la distribuzione. Una volta finito, un prodotto deve avere la giusta esposizione e in molti casi la distribuzione internazionale può risultare decisiva per decretare il successo di un’opera. Lei che tipo di rapporto ha con questo processo? Segue il modo in cui i suoi lavori sono distribuiti e ricevuti all’estero?
È sicuramente una grande occasione quando il proprio libro o film viaggia oltre il Paese e la lingua d’origine. Bisogna tener presente che ci sono dei modi di fare e delle espressioni che non possono essere compresi al di fuori di un certo contesto, ma allo stesso tempo ci sono cose davvero universali. Mi viene in mente il mio primo film, Ti amerò sempre, con il quale ho notato che la reazione nei cinema, indipendentemente dal Paese, era sempre la stessa. Penso anche ai miei libri che sono distribuiti in vari Paesi, come Il rapporto e La nipote del signor Linh, per i quali le reazioni sono le stesse. È vero che si hanno delle culture, delle lingue, delle abitudini diverse, ma è altrettanto vero che esiste un’antropologia che è comune a tutti. Tuttavia, quando scrivi una storia o giri un film, non puoi sapere quali saranno le emozioni che andrai a trasmettere. Tornando a Ti amerò sempre, mi sono reso conto che la gente ne è rimasta sconvolta. Se penso invece al mio film […Non ci posso credere] con Stefano Accorsi e Neri Marcorè, so che trasmette sensazioni positive e sono felice che dopo anni la gente mi ferma per dirmi che, quando si sente giù, lo guarda per tirarsi su di morale. Non siamo consapevoli di ciò che creiamo. I film e i libri che realizziamo ci superano sempre.
Ha collaborato alla serie francese Chez Maupassant, ma non hai mai seguito un suo progetto seriale personale. Visto il successo sempre maggiore delle serie in TV e in streaming, le piacerebbe realizzarne una? Pensa che la serialità offra dei vantaggi ben precisi?
Oggi le serie sono sempre più importanti. Il pubblico attende e, oserei dire, apprezza le serie ancor più che il cinema. Penso che dipenda dal tempo libero sempre maggiore di cui godono i giovani occidentali e dalla dipendenza che le serie possono provocare. Le serie giocano su questo: il tempo libero e il fatto che siano come una droga. Un ulteriore vantaggio è che sono disponibili su piattaforme che consentono di vederle quando si vuole e dove si vuole, nonché per un prezzo ridicolo, paragonato al cinema. Dal punto di vista di chi realizza film, è interessante vedere come sia costruito lo sviluppo dei personaggi nelle serie. Ho da poco finito di rivedere I Soprano di David Chase. Ti rendi conto che i personaggi finiscono per vivere con te e, nell’arco delle sei stagioni, diventano come una famiglia. I rapporti che si hanno con loro sono diversi rispetto al cinema, perché vivono con te. Passi dei mesi con loro, quindi diventano parte di te, mentre i personaggi dei film fanno parte della tua vita solo per un paio d’ore. I personaggi delle serie si pongono a un livello intermedio fra i personaggi dei film e persone reali, sono qualcosa di diverso.
Philippe Claudel è assieme all’animatore americano Tony Grillo e all’organizzatrice di festival Laura Aimone uno dei giurati del Concorso Internazionale del Ca’ Foscari Short Film Festival 11. Molti dei suoi libri sono editi in Italia da Ponte alle Grazie. Il suo ultimo lavoro da regista è Le Bruit des trousseaux, film per la TV che segna la prima volta in cui Claudel adatta un suo stesso romanzo.