8 giorni alla fine: recensione della nuova serie tedesca
La nostra recensione di 8 giorni alla fine, nuova serie apocalittica tedesca che ha debuttato su Sky Atlantic il 23 settembre. Il racconto intenso e angosciante di persone comuni in una situazione straordinaria.
Un enorme asteroide si sta avvicinando rapidamente alla Terra, puntando dritto verso l’Europa. I missili militari non sono riusciti a distruggerlo, né a deviarne la traiettoria. L’impatto è inevitabile. Comincia così, con queste agghiaccianti premesse, il thriller-drama tedesco 8 giorni alla fine (8 Tage), creato da Rafael Parente e diretto da Stefan Ruzowitzky, sbarcato su Sky Atlantic questo 23 settembre.
Non è certamente una novità nel panorama cinematografico e seriale utilizzare l’espediente di un’Apocalisse imminente per raccontare delle storie dal forte impatto emotivo, ma 8 giorni alla fine va oltre i classici prodotti disfattisti ad alta tensione, strappando via dall’intreccio quell’impostazione eroica che tanto elettrizza gli appassionati del genere.
8 giorni alla fine è il racconto di vite che stanno per andare incontro a una terribile fine, di persone normali che si trovano ad affrontare una verità devastante: la certezza di un disastro imminente.
In questa atmosfera piuttosto cupa anche i piccoli gesti possono amplificarsi fino a raggiungere significati vitali.
8 giorni alla fine: una strenua lotta per la sopravvivenza, in una società radicalmente cambiata
Una famiglia composta da Uli (Mark Waschke), Susanne (Christiane Paul) e i figli Leonie (Anna Lena Klenke) e Ben (Thomas Prenn), cercano di raggiungere un luogo sicuro all’alba dell’impatto dell’asteroide Horus. Fanno lo stesso il fratello di Susanne, il politico Hermann (Fabian Hinrichs), la sua ragazza incinta Marion (Nora Waldstätten), e il perverso Klaus (Devid Striesow), intenzionato a sopravvivere con la figlia e un po’ di accoliti nel bunker da lui acquistato tempo prima. In una realtà in cui l’immigrazione è diventata praticamente impossibile, sono proprio i bunker la risorsa più ambita, per la quale le persone sono disposte a fare carte false, lottare e uccidere.
Il nucleo pulsante di questa serie in otto parti (una per ogni giorno restante prima dell’impatto) è rappresentato proprio dalla sua essenza pre-apocalittica, che crea i presupposti per l’esplorazione attenta – a tratti poetica e a tratti nichilista – della natura umana. In una società dove non esiste la speranza di una sopravvivenza, anche le conseguenze delle proprie azioni assumono un significato diverso da prima. Il confine tra il bene e il male si sfuma a tal punto da essere attraversato troppo facilmente, man mano che la paura della morte trasforma le persone, in meglio o in peggio.
Sono pochi gli elementi con cui gli showrunner giocano. Basta prendere un pericolo mortale inevitabile e un gruppo di persone normali e restare ad assistere allo scatenarsi di forze incredibili, che si trasformano in una narrazione non sempre coerente, ma estremamente credibile. Una narrazione fatta di lealtà, tradimento, amore, famiglia, violenza e fede.
Le premesse non troppo complesse non si riducono a una banalità dell’intreccio e della costruzione psicologica dei personaggi. La scrittura risulta invece efficiente, capace di mostrare le numerose sfaccettature umane, di far emergere il buono nelle figure negative e il cattivo in quelle positive. Di fronte all’ineluttabilità della morte non esiste giusto o sbagliato, bensì migliaia di sfumature, tra le quali prevale l’istinto di sopravvivenza.
Parte del fascino e della credibilità di 8 giorni alla fine risiede nella sua capacità di creare fin dalle prime puntate un legame tra personaggi e spettatore, tanto che alla fine delle otto puntate è difficile non essersi affezionati a qualcuno dei protagonisti e non sperare nella loro sopravvivenza.
8 giorni alla fine: l’Apocalisse tra speranza e violenza
La speranza che qualcosa cambi prima dell’impatto è uno dei leitmotiv dell’intera serie. Anche di fronte a notizie ben poco rincuoranti per tutta la stagione vediamo ciò che le persone sono disposte a fare per sopravvivere o – per chi ha ormai perso ogni fiducia – per attendere la morte sfruttando appieno gli ultimi istanti di vita. 8 giorni alla fine è la rappresentazione dei tanti approcci che si possono avere di fronte a un disastro imminente, tutti con il comune denominatore della violenza nelle sue diverse forme.
L’essere umano come animale che vuole arrivare ai propri scopi – in un modo o nell’altro – è un punto fisso della serie: vediamo l’egoismo e la corruzione di politici che mentono sulla realtà dei fatti e sulla possibilità di raggiungere i bunker, riservandoli in realtà a pochi eletti; vediamo i giovani che trascorrono gli ultimi otto giorni distruggendo se stessi con alcool, droghe e sesso; vediamo una famiglia disposta a tutto pur di sopravvivere insieme; vediamo un uomo sadico condurre un gioco spietato per scegliere chi potrà godere insieme a lui della protezione del bunker. Violenze di tipo diverso, ma tutte volte alla sopravvivenza e per questo talvolta addirittura comprensibili.
Un’attenzione particolare è rivolta alla componente “religiosa” della narrazione, immancabile in un prodotto che parla dell’Apocalisse alle porte. Pur essendo la base per un’attenta e positiva auto-analisi, che porta all’accettazione dei propri peccati e del volere divino, anche la religione in 8 giorni alla fine assume delle connotazioni inquietanti, facendo propria la stessa violenza che caratterizza le altre vicende di paura ed egoismo. La Fede qui non è solo un veicolo di comunione e di speranza, un seme per la nascita di nuove comunità di fratelli uniti da un destino comune, ma è anche alimentata da quel particolare tipo di ignoranza generato dalla paura, che porta gli uomini a fare di tutto con la promessa della misericordia.
Se da un lato vediamo dunque la parte migliore della Fede umana nel visionario Robin (David Schütter), assistiamo anche a forme di ingiustizia e di violenza. Il terrore dell’Apocalisse annebbia il giudizio delle persone, confermando il pensiero marxista secondo il quale: “la religione è l’oppio dei popoli”.
8 giorni alla fine: pregi e difetti tecnici di una valida produzione europea
Nonostante siamo di fronte a una serie tedesca dal budget palesemente inferiore alle grandi produzioni americane, abbiamo di nuovo la prova che anche i titoli europei hanno molto da raccontare. Dopo serie tv dal successo internazionale come Dark e la cupa Parfum, anche 8 giorni alla fine conferma il fatto che i tedeschi hanno centrato nuovamente il punto nel presentare agli spettatori una narrazione thriller che tiene col fiato sospeso.
A livello tecnico la serie non eccelle in modo particolare, soprattutto nella regia, ma questa appare anche come strettamente funzionale al realismo che la serie vuole esprimere.
Ci troviamo lontani da avere uno stile registico volutamente amatoriale, ma le riprese apparentemente non troppo curate e talvolta “traballanti” sembrano rispecchiare una tecnica ingenua. Questo, affiancato a una fotografia tendenzialmente fredda, ci permette di percepire a pelle l’oscurità degli ultimi giorni dei protagonisti e la concitazione nel cercare una via d’uscita da una situazione drastica. A contribuire al senso di realismo che traspare dall’opera sono le soddisfacenti performance degli interpreti, giovani e adulti, che sanno trasmettere in modo credibile le complesse emozioni di chi si trova in una situazione drastica. Un tocco artistico è donato dalla colonna sonora di David Reichelt – in primis dalla sigla d’apertura – inquietante e apocalittica come l’atmosfera richiede.