Alba: recensione della serie tv Netflix
Remake di una vecchia gloria della tv turca, Alba accompagna una giovane donna vittima di stupro alla scoperta – e alla denuncia – non solo dei suoi aguzzini, ma anche di mostri interni ed esterni a lei stessa.
Alba (Elena Rivera) e Bruno (Eric Masip) sono una giovane coppia che, da Madrid, torna ad Alicante, città natale di entrambi, per trascorrere le vacanze estive. L’intenzione dei due è inoltre quella di coronare il loro legame, divenuto nel tempo stabile, rendendolo noto ad amici e familiari. Le cose, però, seguono una direzione contraria alla loro volontà: dopo aver passato una serata al pub in compagnia della sua migliore amica ed essere stata drogata e narcotizzata, Alba si risveglia in spiaggia, confusa e piena di lividi. È solo dopo essere giunta in ospedale che scopre di essere stata vittima di uno stupro. Autori della violenza, i migliori amici di Bruno, all’oscuro della sua identità.
Alba, tra thriller giudiziario, posh crime (à la Élite) e soap opera
Riadattamento dell’elefantiaca – contava 80 episodi, spalmati in due stagioni – serie turca, di grande successo negli anni 2010-2011, dal titolo Fatmagül’ün Suçu Ne? (“Qual è la colpa di Fatmagül?”), Alba sembra ispirarsi anche a modelli netflixiani quali Élite, di cui ritroviamo l’attore Álvaro Rico, qui nella parte di Jacobo Enterríos, soprattutto nell’evocazione di tensioni derivanti da differenze di classe e dalla contrapposizione tra cittadini ‘eleganti’ – figli di papà? – e paletos de pueblo.
Qualcosa, nella costruzione narrativa, risulta, tuttavia, ibrido: a momenti in cui il debito maggiore sembra essere quello, nei suoi aspetti più disturbanti, con il paradigma crime, al confine con il thriller giudiziario, s’alternano divagazioni pop che accorciano le distanze dall’immaginario deteriore della soap opera. La questione di genere resta irrisolta fino alla fine provocando nel pubblico un’indecisione rispetto alla collocazione di ciò che sta guardando: è un noir o un romance? Devo credere alle tinte fosche o alle morbidezze rosa? Lo sconfinamento dell’uno – il noir – nell’altro – il romance – assume spesso la dinamica, più che di uno scivolamento, di una torsione brusca e schizoide, di una divisione che non riesce a integrare organicamente le sue parti.
La pratica scorretta del brodo allungato. Meglio tornare ad Aristotele
Non sarebbe di per sé un problema rinunciare alle etichette – Alba è, tra le altre cose, anche un racconto di formazione perché segue la sua protagonista alla scoperta di sé, soprattutto di ciò che fuori e dentro di sé è ‘spaventoso’ –, se non fosse che il prodotto patisce in modo significativo una gestione vistosamente antieconomica dell’intreccio, sottoposto, da una parte, a un’incomprensibile dilatazione del ritmo – la serie conta tredici episodi di cinquanta minuti ciascuno: ne basterebbero due, massimo tre, per rappresentare tutto ciò che c’era da rappresentare –; dall’altra, a uno sfilacciamento in sottotrame che mina la compattezza dell’opera nei suoi nessi fondanti.
Gli autori allungano il bordo: perché lo facciano non è chiaro, ma di certo per ragioni differenti rispetto al vantaggio narrativo. Gli showrunner delle grandi produzioni, oggi, avrebbero più che mai bisogno di riprendere in mano Aristotele e di ripassare la prassi drammaturgica da lui normata: l’unità d’azione, vale a dire lo sviluppo unitario, privo di disarticolazioni e di vicende accessorie, che si fa perno irrinunciabile della costruzione drammatico-narrativa, garanzia di una micidiale efficacia nel meccanismo che regola l’intreccio in rapporto alla fabula.
Tematiche importanti, ma affidate a dialoghi posticci e a psicologie eccessivamente tipizzate
Dispiace che un tale dispendio di tempo – degli autori che ci hanno lavorato e degli spettatori che hanno dato allo show una chance – non aiuti, sul piano fattuale, lo sviluppo di tematizzazioni in potenza particolarmente dense e socialmente rilevanti: tra le altre, la colpevolizzazione indiretta della vittima di stupro; il doppio standard morale, tra uomini e donne, rispetto alle condotte sessuali o ricreative, in seno a una società che appare ancora oggi, nonostante tutto, avvelenata da scorie machiste; la difficoltà nel ristabilire la piena verità di un fatto criminale; le ambivalenze nell’elaborazione di un evento traumatico, in rapporto a sé e agli altri, da parte di chi lo ho subito.
Le psicologie dei personaggi, protagonisti e secondari, appaiono tipizzate ed è proprio il mancato approfondimento dei loro tratti singolari – denunciato soprattutto da dialoghi appena abbozzati, irrigiditi da schemi e stereotipie – a ostacolare non solo il processo di sintonizzazione emotiva, ma anche l’avvio di una pratica di problematizzazione, di riflessione feconda sui moventi del male in relazione alle configurazioni sociali.