American Horror Story: Cult – recensione della settima stagione completa

Con l'episodio "Great Again" si è conclusa la settima discussa stagione di American Horror Story.

Si è conclusa ieri, venerdì 15 Dicembre, su FOX Italia la settima stagione di American Horror Story: Cult. La fortunata serie antologica a tema horror creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk è giunta al suo settimo anno di vita e con Cult si è arricchita di una nuova storia dopo Murder House, Asylum, Coven, Freak Show, Hotel e Roanoke. Ma la settima stagione ha davvero convinto? Sin dal primo episodio Cult è stata introdotta in una maniera decisamente differente rispetto al passato e le premesse davano l’impressione di trovarci davanti ad un American Horror Story completamente nuovo. Il potenziale iniziale sarà stato pienamente sviluppato? Scopriamolo insieme.

Leggi QUI la nostra recensione del primo episodio di American Horror Story: Cult La notte delle elezioni andato in onda su FOX Italia il 6 Ottobre 2017

ATTENZIONE: potrebbero seguire SPOILER sulla trama di stagione

Partiamo immediatamente col dire questo: sicuramente la settima stagione di American Horror Story si differenzia completamente dalle precedenti. L’elemento che ce lo fa affermare è una sorta di ribaltamento del punto di vista: questa volta percepiamo da vicino il male e viviamo ad un passo dall’incubo. Non dobbiamo scoprire chi si cela nell’oscurità: sappiamo ben prima di metà stagione chi muove i fili del terrore. Con lo svolgersi della storia, infatti, vediamo il maligno da una nuova prospettiva, quella costituita dalla setta di Kai Anderson, interpretato da Evan Peters. Il ragazzo è, forse, il personaggio più riuscito di questa stagione. Kai è un leader misogino, razzista, maschilista, disumano e psicologicamente alterato. Evan Peters, molto a suo agio nel ruolo, riesce a sviscerare le mille sfaccettature di un personaggio palesemente negativo e disturbato. D’altra parte, come appena detto, la performance dell’attore, interprete di Quicksilver nei recenti film facenti parte del franchise X-Men, è l’unica che riesce davvero a farsi largo tra la rosa di personaggi, tutti negativi. Ad esempio, analizzando il personaggio interpretato da Sarah Paulson, Ally Mayfair-Richards, non si può che storcere il naso davanti ad una performance che non punge come avrebbe dovuto. Forse a causa di una scrittura non proprio incisiva, l’interpretazione dell’attrice feticcio di Ryan Murphy non convince risultando, molto spesso, anche alquanto sgradevole o ripetitiva.

American Horror Story: Cult

American Horror Story: Cult si differenzia dalle precedenti stagioni della serie pur non convincendo pienamente

L’intera stagione di Cult soffre palesemente di una mancata consapevolezza. Il carattere horror, prerogativa della serie, si trasforma abbandonando completamente l’elemento sovrannaturale in favore di un’idea più umana del male. A tal proposito si deve a Cult quantomeno il coraggio per aver cercato di mostrare, attraverso la storia, l’orrore che può scaturire dalla mente umana. Più precisamente per aver cercato di mostrare l’orrore che scaturisce dalla mante umana contestualizzato nella società in cui viviamo. In particolare nell’America di Donald Trump, utilizzato come trampolino di lancio della stagione – ricordate la notte delle elezioni nel primo episodio?

Tuttavia, anche la Politica mostrata in Cult, non è altri che un pretesto per addentrarsi nelle profondità di una setta estremista e terribile. Peccato che l’intera stagione si sia sviluppata solo in superficie senza mai raschiare le pareti subacquee dell’iceberg che è Cult. La sceneggiatura, vero problema di AHS 7, non sempre funziona: è scialba, povera di tensione, a tratti telefonata (esempio: l’omicidio di Ivy da parte di Ally o la stessa Ally nuovo membro della setta femminista estremista di cui faceva parte anche il personaggio interpretato da Lena Dunham, Valerie Solanas). Anche i momenti di flashback, come l’episodio dedicato ad Andy Warhol e la setta Zodiac o il capitolo Charles Manson, non si incastrano benignamente nel contesto, pur riprendendo il tema di stagione: pare come se si sia voluto, in qualche modo, allungare un brodo insapore. Il finale di stagione – conclusa con l’episodio intitolato Il grande giorno; Great Again in America – ci lascia senza aver chiarito alcuni dubbi. Non che questo sia necessariamente un male, certo, ma la mole di buchi di sceneggiatura non riesce a compensare una scrittura che, questa volta, non ha inciso come avrebbe potuto.

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Regia - 3
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.8