Amore (e guai) a Parigi: recensione della serie TV Sky
Amore (e guai) a Parigi porta sullo schermo una nuova Bridget Jones?
Dal 9 aprile 2023 su Sky e NOW arriva Amore (e guai) a Parigi, una commedia francese in sei episodi che mescola equivoci e romanticismo. Ma consigliamo di astenersi dalla visione se non si ha, nel frattempo, nulla da stirare.
Il mito di Bridget Jones, a sua volta estrema ramificazione di archetipi remoti, non esaurisce la sua attualità e anzi trova il modo di incarnarsi in personaggi femminili sempre nuovi, alcuni scritti con maggiore arguzia e sottigliezza psicologica; altri, repliche rudimentali. A questa ultima categoria, ahinoi, appartiene Julie, detta Jul, la protagonista di Amore (e guai) a Parigi.
Jul ha trentasei anni e al matrimonio della sorella – più giovane! – si presenta da sola. Nello stesso giorno, ha perso amore e lavoro, amore e lavoro che per lei, fino a quel momento, coincidevano: aveva, infatti, una relazione con il suo capo. La madre, più per perfezionismo estetico che per reale rammarico, riempie il ‘buco’ al tavolo lasciato dall’accompagnatore della figlia assoldando un ragazzo capitato a tiro, che, a seguito di una serie di vicissitudini di cui omettiamo il resoconto, finisce per diventare coinquilino ‘gay’ di Julie. Nel frattempo, quest’ultima, rimasta sola e lacrimosa sul sedile posteriore di un taxi, riceve una telefonata destinata a un’altra donna da parte di un uomo che è la personificazione di tutto ciò che è desiderabile nell’altro sesso: un buon lavoro, un buon carattere e un discreto sex appeal.
Amore (e guai) a Parigi: una nuova Bridget Jones, meno goffa (e meno divertente) sotto il sole della ville lumière
Gli equivoci che fanno muovere la trama si articolano lungo due direzioni fondamentali: l’uomo perfetto di Julie non sa che la donna a cui aveva destinato il suo messaggio d’amore non l’ha mai ricevuto e Julie, d’altra parte, non sa che il suo coinquilino ‘imperfetto’ non è l’omosessuale per cui si era spacciato. C’è un altro equivoco che si produce e che, in modo più sotterraneo, fa muovere, anziché la trama, le psicologie dei personaggi principali: quello rispetto al proprio desiderio. Che cosa vuole Julie per sé? Un uomo che rappresenti una somma di qualità socialmente rilevanti, impeccabile secondo ogni parametro, o qualcuno che solleciti un sentire, scombini le aspettative, la sposti in relazione a un centro immaginato, a un’identità data per irreversibile? Amore (e guai) a Parigi paga una certa prevedibilità sia nell’impostazione sia nella risoluzione del conflitto, ma questo sarebbe poco male. Non occorre che un prodotto, per essere godibile, si distingua per particolare originalità e, del resto, Amore (e guai) a Parigi poteva comunque rincorrere l’ambizione di proporsi come confort show, se proprio allo status di guilty pleasure non poteva aspirare.
Eppure, non solo ogni elemento in questa serie suggerisce un’impressione di già visto – le due amiche di Julie, sebbene più deboli per brio e incisività, ricordano tanto quelle della parigina Elsa nella serie Netflix, analoga per intenzioni, Operazione amore – ma è anche vero che non c’è un aspetto in cui il confronto con qualcos’altro che si sia già visto o anche solo immaginato venga vinto: i dialoghi mancano tanto di vivacità quanto di verità, e persino la Parigi dell’ambientazione non è mai parsa meno Parigi di così. Non è il luogo del sogno come in Emily in Paris – la metropoli delle opportunità, la città delle sedimentazioni storiche e dell’orgoglio sciovinista nondimeno librata verso il futuro – e non è il luogo della levità sentimentale, quella in cui è possibile scambiare amore per amore con elegante disinvoltura, gusto per la vita, apertura all’inatteso e all’ironia del caso. È invece una Parigi ruvida, ammuffita e anche un po’ grossolana, priva dello charme impalpabile di cui in genere pervade chiunque si trovi a viverla: oggetti e soggetti, persone e cose. Sorprende che, se la serie è piena di cliché, sia proprio quello che ci sarebbe stato più gradito – chi può dirsi mai stanco di Parigi? – a mancare. Industriale per scrittura ed estetica, poco curato nei dettagli drammaturgici e fotografici-iconografici, di una televisività deteriore, anche un po’ insipida, che oggi continua a parlare soprattutto alle generazioni passate, le quali, però, potrebbero non entrare in sintonia con le inquietudini Millennials evocate, Amore (e guai) a Parigi va bene per passare qualche ora davanti a uno schermo mentre si cerca di smaltire la pila dei panni asciutti da stirare. Ma nulla di più. Per chi, invece, ha superato i complessi degli outfit grinzati, il consiglio è senz’altro di passare oltre e non perdere tempo.
Amore (e guai) a Parigi: valutazione e conclusione
Amore (e guai) a Parigi è una serie senza pretese, anonima in ogni sua componente: regia, fotografia, scrittura e interpretazione. Come tale va accostata: non è ricercata né nelle forme né nei contenuti e non ricerca, per sé, un pubblico esigente, ma si rivolge a chi non sia ancora assuefatto dai codici della fiction televisiva di consumo. Non restituisce il ritratto né di un microcosmo relazionale singolare né di una generazione: la vicende potrebbe svolgersi a Oslo come a Bari e non si noterebbe la differenza tanto i linguaggi dei personaggi e le loro interazioni con l’ambiente sono impersonali, aspecifiche. Se è vero che la precarietà professionale e quella sentimentale, oltre all’interiorizzazione delle aspettative altrui e di una certa ansia agonistica nei confronti degli altri, accumulatori – loro! – di successi, potrebbero considerarsi questioni più proprie dei Millennials, d’altra parte, la resa drammatica del soggetto non valorizza nessuna declinazione particolare di un discorso amoroso-esistenziale che pertanto si rivela universale, discorso che non trova, però, né una lingua né un punto di vista in grado di attualizzarlo o anche solo di autenticarlo e finisce per scadere nell’ordinarietà di un cliché accolto senza essere discusso e rimodulato. Se il finale ‘telefonato’ non rappresenta di per sé un ostacolo al godimento di un prodotto audiovisivo, e anzi può rappresentare un vantaggio nella fruizione di un’opera quale bene di conforto o di appagamento sicuro, la scontatezza di Amore (e guai) a Parigi dipende più dalla sciatteria di mezzi e visioni che dalla precisa volontà di ripetere un rituale ‘riparativo’.
Regia: 2/5
Sceneggiatura: 1/5
Fotografia: 2/5
Recitazione: 2,5/5
Sonoro: 2/5
Emozione: 1,5/5