Away: recensione della serie Netflix con Hilary Swank
Hilary Swank a capo di una missione spaziale ci mostra tutte le fragilità dell'essere umano.
Una donna, una missione nello spazio per raggiungere Marte, tre anni lontano dalla terra, da casa, dalla famiglia. Questo è in sintesi il punto di partenza di Away, serie di dieci episodi, family drama di fantascienza in arrivo su Netflix il 4 settembre 2020, creata da Andrew Hinderaker con Hilary Swank, Ato Essandoh, Mark Ivanir, Ray Panthaki, Vivian Wu, Talitha Bateman e Josh Charles.
Away: una donna a capo della missione su Marte
Tutto è pronto, Emma Green (Hilary Swank) è pronta, spaventata, eccitata ma pronta; questo momento lo aspetta da molto tempo. Lei è un’astronauta, si prepara da anni a questa missione: arrivare su Marte, guidando un equipaggio internazionale della nave spaziale Atlas, equipaggio che proviene da Stati Uniti, Russia, Cina, India e Gran Bretagna. Non è facile, deve lasciare molto dietro di sé, per tre lunghi anni, il marito, Matt (Josh Charles), e la figlia adolescente, Alexis, Lex per i genitori e gli amici, la sua vita, mettendo da parte le sue paure, le preoccupazione. I suoi compagni di viaggio sono alcuni tra gli scienziati più competenti del mondo: c’è Misha (Mark Ivanir), un ingegnere russo; Kwesi (Ato Essandoh), un botanico di fama mondiale diviso tra scienza e fede; Ram (Ray Panthaki), un pilota e chirurgo; e Lu (Vivian Wu), una chimica e astronauta cinese.
Away racconta la missione spaziale della NASA sul pianeta Marte con dovizia di particolari concentrandosi però anche sulla vita dei personaggi, donne e uomini che lasciano le loro vite, le loro famiglie per affrontare un’avventura che li cambierà per sempre e che metterà a dura prova il loro corpo e la loro mente.
Away: Hilary Swank interpreta un’astronauta coraggiosa ma anche fragile
Emma è il centro di questa narrazione: lei è la donna che muove ogni cosa, lei ha paura, agisce, alle volte anche sbagliando, ad un certo punto pensa anche di non partire per non abbandonare Matt e Lex che hanno bisogno di lei. Il personaggio interpretato dalla Swank dimostra varie fragilità: è sì una donna a capo di una missione composta praticamente da soli uomini – una delle due sole astronaute, ribadendo così quanto sia difficile coniugare vita e lavoro – ma è poco indipendente, bisognosa del sostegno e del supporto di Matt che non può partecipare alla missione per problemi di salute. Ogni cosa la riporta a casa: quando è sul punto di non partire – perché il marito è stato colpito da un ictus – saranno il coniuge e la figlia a invitarla a farlo perché così deve essere, mentre ogni tipo di cataclisma e di problema tecnico colpisce l’Atlas è proprio Matt a risolverli dal suo letto d’ospedale, dalla sedia a rotelle, dalla sua scrivania. La serie ripropone la retorica, anche se modernizzata, della principessa che deve essere salvata: lei ha sì un ruolo importante, agisce e salva i compagni e la missione ma è “pilotata” da Matt che nonostante sia a casa, con la figlia, è una sorta di superuomo che porta a buon fine ogni cosa.
Emma inevitabilmente soffre la lontananza, come accade a Lu, la capitana della missione sembra dover lavorare ancora molto su di sé – ad un certo punto ha un crollo emotivo -; la donna riesce a superare ogni ostacolo grazie a quello spirito di sacrificio che hanno tutti ma che in lei si trasforma in umanità e spirito materno. Un’astronauta ma anche una moglie e una mamma: non c’è momento in cui non scriva una mail, non chiami, non pensi, non ricordi – molti i flashback – Matt e Lex; nei momenti difficili, quando sente la morte vicina, pensa di parlare con il marito, lo immagina accanto a sé. Se in un primo momento questo può servire a comprendere il legame profondo che ha con la sua “anima gemella” poi diventa stridente perché fin troppo insistito come se lei, senza di lui, non riuscisse a reagire a nessun tipo di avvenimento – mentre il marito con una malattia congenita, un ictus alla spalle, bloccato su una sedia a rotelle riesce a relazionarsi con una figlia adolescente alle prese con il primo fidanzato, a dare consigli ottimi alla moglie nello spazio e a reagire benissimo alla sua nuova condizione. Matt e Emma sembrano due poli opposti: lei nello spazio, in salute, “in azione”, lui sulla terra, con un corpo che non risponde ai suoi comandi ma completamente pronto a riabituarsi alla “nuova vita”.
Away: il racconto di un viaggio nello spazio ma anche di grandi sentimenti
Away narra sì una storia di un viaggio nello spazio, una storia di scienza e di amore per la curiosità di “seguire virtute e canoscenza”, ma è anche quella dei sentimenti, della famiglia; e proprio per questo motivo infatti lo spettatore riesce a conoscere profondamente i personaggi, entrando in contatto con loro grazie ai numerosi flashback. Essi sono sì degli astronauti e delle astronaute ma sono anche, e forse soprattutto, uomini e delle donne con problemi, emozioni a noi vicine e note. Si parla d’amore – quello per il marito, per un fratello, per la figlia, per i nipoti –, si mette in scena il dramma di chi sa di aver messo a rischio ogni relazione della propria vita per il lavoro – Misha non è stato un padre presente e con la figlia il rapporto è nullo, Lu mantiene un segreto, in nome dello Stato a cui appartiene e della stretta e dicotomica relazione pubblico/privato, che non le permette di vivere serenamente. Si mostra come la famiglia si sia modificata e si sia declinata in molti versi e sensi: se da una parte c’è Ram che ormai solo al mondo vive nel ricordo del fratello morto, dall’altra c’è quella composta da Matt, Emma e Lex, unita, forte, felice, poi ancora c’è quella di Kwesi che è stato adottato dopo aver perso entrambi i genitori, e ancora quella di Lu, algida e lontana dall’emotività, quella di Misha, zoppicante, piena di buchi neri ma presente ugualmente – è molto tenero l’astronauta con i nipoti e per loro organizza uno spettacolo con le marionette. C’è poi la famiglia che questi personaggi creano proprio perché vivere lontano dai propri cari fa sì che ci si debba appoggiare gli uni agli altri per sopravvivere; infatti il racconto delle dinamiche interne alla squadra è parte integrante dello show: i problemi con Emma da parte di Misha e Lu che mal sopportano la sua leadership, l’alchimia tra Emma, Ram e Kwesi.
Away: la dicotomia scienze-fede
Dicotomia importante è quella scienza-fede; Kwesi è uomo di fede, lui conosce le parole per trovare pace anche nei momenti più drammatici. Se nello spazio tutto è una conseguenza di causa ed effetto, è Kwesi a portare all’Atlas un po’ di trascendenza. Nei momenti cruciali prega a voce alta ritornando a quando, da piccolo, i suoi genitori gli avevano insegnato a sperare, a credere che il miracolo sia possibile. A poco a poco gli altri elementi dell’equipaggio si affidano a quelle parole facendo entrare nel mondo della scienza il linguaggio della fede; proprio quando tutto crolla si cerca riparo e rifugio in altri “luoghi”. I personaggi si stringono, tenendosi mano nella mano, in una sorta di corpo unico, abbandonandosi alla voce calma, fiduciosa di Kwesi, uomo dall’animo buono e dolce. La speranza diventa luce da seguire sempre, anche quando la strada è piena di ostacoli, speranza che è propria del modus cogitandi dell’americano che è abituato a farsi da solo, dal nulla; e tale forza si lega ad un altro sentimento che regge queste storie, l’amore.
Away: una serie che punta molto sugli interpreti
Away, usando come pretesto il racconto di una missione spaziale, narra le donne e gli uomini, forse in maniera fin troppo patetica a volte, un po’ lenta e a tratti ripetitiva. Le storie, i ricordi, il privato dei personaggi riescono a coinvolgere, mostrandosi senza troppi schermi. La serie si fa guardare nonostante qualche lungaggine e qualche avvenimento che risulta di troppo. Ciò che funziona però sono gli attori che sono giusti per i ruoli interpretati.