Capitani: recensione della serie poliziesca Netflix
Un cadavere in un bosco, una adolescente misteriosamente scomparsa da ritrovare e una verità inconfessabile da portare a galla. Arrivano su Netflix dall’11 febbraio le indagini del detective Luc Capitani nella serie lussemburghese creata da Thierry Faber.
Un tempo una serie scritta e prodotta in una nazione piccola come il Lussemburgo avrebbe fatto notizia e attirato su di sé l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori. Un tempo forse, ma non più adesso che il mercato della serialità si è esteso a livello globale e la richiesta si è praticamente quadruplicata. Il risultato è un incremento sostanziale dei prodotti audiovisivi pensati per la lunga distanza, sfornati praticamente ovunque a tutte le latitudini, anche in quei Paesi che non possono contare su una vera e propria Industria di settore con decenni di storia alle spalle. Motivo per cui il rilascio su Netflix l’11 febbraio della prima stagione di Capitani è uscita dai radar di molti, ma non dal nostro che l’abbiamo intercettata e messa immediatamente sotto la lente d’ingrandimento.
Capitani: un numero di episodi superiore alle reali esigenze narrative mette a rischio la fruibilità della serie
La prima cosa che ci è saltata all’occhio nel corso dell’analisi è il numero di episodi che la vanno a comporre, ben 12 della durata indicativa di 27 minuti cadauno. Un numero ampiamente nella media dei prodotti seriali, se non fosse per le reali esigenze narrative e drammaturgiche, che al contrario richiedono un metraggio decisamente inferiore. Si assiste pertanto a un’eccessiva dilatazione degli eventi, alla quale segue un quantitativo elevato di parentesi futili che gonfiano le timeline in maniera piuttosto evidente. Il ché rischia in più di un’occasione di mettere a dura prova la pazienza di uno spettatore che si trova a fare i conti con furbi tentativi di depistaggio, quelli del quale normalmente si servono le serie crime e poliziesche per giocare a scacchi con il fruitore di turno. Peccato che alla lunga la partita tra gli autori e chi siede dall’altra parte dello schermo si faccia un po’ troppo caotica ed estenuante.
Una manciata di efficaci cliffhanger e un twist ben assestato al giro di boa cambiano le sorti di Capitani
Fortuna che il creatore Thierry Faber e il regista Christophe Wagner siano corsi ai ripari prima che la situazione scapasse loro definitivamente di mano. I due riprendono la serie per i capelli, prima che questa arrivi al fatidico punto di non ritorno. Lo fanno negli ultimi frangenti del sesto episodio, piazzando un cliffhanger ad effetto al quale seguirà un twist che darà uno sprint decisivo e un netto cambio di rotta alla storia e ai suoi intrecci. Un twist che di default cambia anche le sorti di un’opera altrimenti destinata a sprofondare nelle sabbie mobili della mediocrità. Il sesto episodio si tramuta di fatto in uno spartiacque che divide una zoppicante prima parte da una seconda nella quale la scrittura e le sue atmosfere si fanno più nere e torbide. Il marciume inizia così a tornare a galla in parallelo con quella verità inconfessabile che molti degli abitanti del villaggio di Manscheid tentano con tutti i mezzi leciti e non di tenere sepolta nelle fitte trame del bosco, laddove in una giornata come tante di un’estate torrida viene rinvenuto il cadavere di una quindicenne della zona. Dietro quello che si presenta all’apparenza come il suicidio di una giovane tossicodipendente, c’è in realtà qualcosa di più grande. Ed è sul quel qualcosa che il detective Luc Capitani (interpretato da Luc Schiltz) dovrà fare luce per risolvere l’intricata questione. Ma per farlo dovrà prima fare breccia nel granitico muro di omertà, omissioni, segreti e bugie, eretto in difesa della verità.
Capitani trova la sua ragione d’essere quando gli ingranaggi del meccanismo thrilling entrano finalmente a regime
Capitani trova la sua ragione d’essere dopo il giro di boa, quando gli ingranaggi del meccanismo thrilling entrano finalmente a regime, consegnando al pubblico una struttura orizzontale lineare ma infarcita di colpi di scena che entrano a gamba tesa sui personaggi e sugli spettatori. Il livello di coinvolgimento di quest’ultimo sale, merito di una scrittura e di una messa in quadro che tra una rivelazione e l’altra trovano il modo di punzecchiarlo. Una capacità che va riconosciuta all’architettura principale, quella legata all’indagine. Di contro, la sottotrama che riguarda il passato del protagonista e i veri motivi che lo hanno portato in quel villaggio sembra più meccanica e forzata. Una crepa che mette un freno alla riuscita finale della serie. Non ci resta che attendere la seconda stagione per capire se gli autori avranno imparato qualcosa dagli errori commessi in quella inaugurale.