Cella 211: recensione della serie messicana Netflix
La recensione del nuovo adattamento, stavolta in formato seriale, del romanzo omonimo di Francisco Pérez Gandul. Dal 5 febbraio 2025 su Netflix.
Se il titolo Cella 211 risuona al quanto familiare a chi come noi è un amante del cinema di genere di qualità, sappiate che è una reazione assolutamente normale, provocata dal ricordo di uno dei migliori prison-movie degli ultimi anni. Stiamo parlando della pellicola di Daniel Monzòn con Carlos Bardem e Luis Tosar, a sua volta trasposizione dell’omonimo romanzo scritto cinque anni prima da Francisco Pérez Gandul. Dalle stesse pagine è stato realizzato un nuovo adattamento, ma stavolta sulla lunga distanza, quella di una serie in sei episodi (della durata variabile che va dai 35 ai 45 minuti) che gli abbonati di Netflix potranno vedere a partire dal 5 febbraio 2025. A scriverla e dirigerla la coppia formata da Gerardo Naranjo e Jaime Reynoso, che all’opera letteraria utilizzata come base narrativa e drammaturgica hanno aggiunto fatti realmente accaduti, attingendo dalla cronaca messicana e nello specifico alla feroce rivolta avvenuta nella prigione di Ciudad Juárez, il 31 dicembre 2022. Ed è da questo mix tra finzione e verità che ha preso forma e sostanza il racconto al centro dello show in questione.
Cella 211 mescola le pagine dell’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul con la cronaca degli eventi della rivolta avvenuta nella prigione di Ciudad Juárez, il 31 dicembre 2022
Cella 211 ci porta al seguito di un avvocato specializzato in diritti umani di nome Juan che si appresta a iniziare una giornata come tante altre in un remoto carcere messicano di confine. Non può immaginare che proprio quel giorno verrà coinvolto in una inarrestabile rivolta dei detenuti. Per sopravvivere, il legale è costretto a fingere di essere uno dei carcerati. Per mimetizzarsi al meglio e riuscire a salvarsi, tuttavia, rischia di commettere le stesse pericolose atrocità dei criminali per i quali di solito si batte. Basta scorrere la sinossi per rendersi immediatamente conto delle differenze rispetto al film del 2009, a cominciare dallo spostamento dell’azione dalla Spagna al Messico, con tutto ciò che ne consegue. La mente di conseguenza non può non tornare a un altro prodotto seriale presente sulla piattaforma a stelle e strisce, vale a dire Il detenuto, con il quale Cella 211 presenta più di un’analogia, oltre alla medesima ambientazione messicana. C’è poi il co-protagonista, il cui testimone è passato dalle mani di Bardem a quelle altrettanto convincenti di Diego Calva, che da guardia penitenziaria si tramuta in un avvocato. Modifica che non sposta più di tanto gli equilibri, anche se rende il personaggio meno credibile e coerente se si pensa a tutte le capacità che dimostra di avere nel corso della timeline. Il cambio di formato invece permette alla vicenda di avere un respiro maggiore per consentire agli autori di ampliare la gettata narrativa, stratificare la trama, sviluppare un numero maggiore di one-lines su una linea orizzontale anziché verticale e dare più spazio ai personaggi e alle dinamiche tra di loro. Se la pellicola di Monzòn si era focalizzata principalmente sulla rivolta e su ciò che aveva messo a disposizione il libro di Pérez Gandul, la serie invece costruisce intorno alla rivolta una ramificazione di sottotrame che amplia ed estende il racconto firmato dallo scrittore spagnolo, andando ad attingere come accennato in precedenza dagli eventi sanguinari consumatisi dentro e fuori dal penitenziario messicano. La fusione tra cronaca e romanzato ha così dato vita a un prodotto audiovisivo che ha trovato una ragione di essere e di esistere proprio nella mutazione del formato e nella suddetta commistione, che ha portato sugli schermi non un remake, bensì uno show che esplora come Vis a Vis, Oz e Prison Break più aspetti e tematiche della detenzione.
Cella 211 racconta la traumatica esperienza di un uomo costretto a rivolgersi al suo lato oscuro per riuscire a sopravvivere in un habitat ostile, animalesco, spietato, dove vige la “legge” del più forte
Il Cella 211 di Naranjo e Reynoso racconta la traumatica esperienza di un uomo trovatosi al posto sbagliato nel momento sbagliato, costretto a rivolgersi al suo lato oscuro per riuscire a sopravvivere in un habitat ostile, animalesco, spietato, dove vige la “legge” del più forte. Sotto la superficie del dramma carcerario, attingendo dai suoi stilemi, la serie mostra la catena di causa ed effetto innescata da una natura umana messa sotto pressione, ma anche le dinamiche di potere istituzionali e le complessità del sistema giudiziario inquinate e messe in dubbio dalla corruzione dilagante e dalla collusione con la criminalità organizzata. Rispetto al lungometraggio del cineasta iberico, che resta comunque un prodotto di livello superiore nonostante l’arco narrativo ridotto, lo show mette tantissima altra carne sul fuoco sviluppando al di sotto della rivolta una linea mistery molto accentuata che coinvolge un valzer di politici, testimoni scomodi, servizi segreti e narcotrafficanti, ma sfruttandola solo in parte. Peccato perché i presupposti e le premesse dei primi episodi davano speranze in tal senso. Ma si preferisce accennare piuttosto che approfondire, procedendo con il freno tirato e spingendo sul pedale dell’acceleratore solo quando arriva il momento di alzare il tasso di violenza (vedi le scene degli scontri dentro e fuori dal carcere, come ad esempio quella della daga) e il ritmo. Si finisce quindi a puntare su questi due ingredienti per garantire alla fruizione un tasso di coinvolgimento in grado di tenere alta la tensione e il coinvolgimento dello spettatore.
Cella 211: valutazione e conclusione
Gerardo Naranjo e Jaime Reynoso rimettono mani al romanzo dello scrittore spagnolo Francisco Pérez Gandul, mescolando le pagine dell’opera letteraria con fatti realmente accaduti. Il cambio di formato rispetto al Cella 211 di Daniel Monzòn da lungometraggio a serie permette al risultato di ampliare i propri orizzonti e sviluppare nuove sottotrame, tra cui quella mistery che chiama in causa un valzer di corruzione e collusione tra politica, legge e criminalità organizzata. Peccato che la linea thriller non venga sfruttata a dovere, lasciando sulla carta un potenziale inespresso. Alcune modifiche nei personaggi principali, nell’intreccio generale e lo spostamento dell’azione dalla Spagna al Messico non cambiano la sostanza. Ad aumentare semmai è il ritmo che si fa più serrato e il livello di violenza che aumenta in maniera esponenziale. Convincenti le interpretazioni, così come la confezione tecnica che raggiunge standard qualitativi ampiamente nella media.