Cent’anni di solitudine – prima parte: recensione della serie TV Netflix
Una serie ambiziosa che richiede allo spettatore tempo e attenzione per essere pienamente apprezzata
Caposaldo della letteratura colombiana, Cent’anni di solitudine sembrava un’opera impossibile da trasporre sul piccolo (o grande) schermo. Un’epopea monumentale, una saga familiare complessa e stratificata il cui albero genealogico dei protagonisti è altrettanto intricato, una storia in cui il realismo magico ne è l’essenza e l’emblema. Tutte peculiarità che lo scrittore Gabriel García Márquez è riuscito a racchiudere nel suo romanzo, ma che si credeva fossero impossibili da trasporre. Non stupisce, quindi, la sfiducia che è dilagata nel 2019 quando Netflix ne ha annunciato l’adattamento seriale visti sia i pessimi risultati di alcuni adattamenti sia la complessità dell’opera. Scetticismo che si è dileguato ufficialmente con l’uscita della prima parte della serie l’11 dicembre 2024.
Un’epopea familiare in una Colombia magica
Vista la laboriosità dell’opera, la scelta dell’adattamento seriale si è dimostrata la soluzione ideale. Con una divisione in due parti da otto episodi l’una, Cent’anni di solitudine ha tutto il tempo per restituire le sensazioni, la complessità e le peculiarità dell’opera da cui è tratta.
Un’epopea familiare che percorre la vita di sette generazioni che ha inizio alla fine del XIX secolo in Macondo, città fittizia immersa nella foresta colombiana. Città fondata da José Arcadio assieme a sua cugina, la cui unione incestuosa scatenò le ire dei familiari che maledicono la loro stirpe.
Da qui parte Cent’anni di solitudine e la difficile eredità che il regista Alex Garcià ha accettato. Un’eredità che è legata alla rappresentazione di un popolo e di una letteratura poco considerata dal resto del mondo, ma soprattutto al restituire tutte le emozione, le tematiche e la totalità dell’opera originale. Intenzione che la serie rispetta grazie ad una sceneggiatura che richiama lo stile elaborato di Márquez formato da una struttura rigorosa, frasi sontuose e un narratore onnisciente – ripreso anche nella serie tv – che anticipa gli eventi. Ma soprattutto è sontuosa e pretende molto dal pubblico.
Una serie che richiede tempo e attenzione per essere vista
Otto episodi da un’ora l’uno che sfruttano ogni momento e che adottano una narrazione lenta che si prende il suo tempo. Una decisione che ben si sposa con la portata della storia che viene adattata, ma che al tempo stesso chiede molto al pubblico perché ogni minuto è quasi dilatato ed ogni puntata sembra durare molto di più. Questo impedisce a Cent’anni di solitudine di essere una serie adatta al binge watching e va bene così. Richiede tempo per essere assimilata, per prendere familiarità con una narrazione in cui il realismo magico si scontra con la condizione socio-economica e politica di un Paese sfaccettato in cui i cambiamenti avvengono, ma seguendo dei tempi ben precisi. Lenti e dilatati.
Così come c’è bisogno di tempo per conoscere ogni personaggio, per creare empatia con una famiglia che attraversa diverse fasi come avviene in ogni saga familiare che si rispetti. La regia e la fotografia si adattano alla narrazione ricorrendo ad uno stile didascalico e lineare che si sforza – e riesce – ad affiancare il soprannaturale con il realismo, i diversi personaggi uniti non soltanto dal sangue, ma anche dalla solitudine profonda che tutti loro vivono.
Cent’anni di solitudine: valutazione e conclusione
L’amore e la dedizione che sono stati impiegati nell’adattamento di un caposaldo della letteratura novecentesca sono il fiore all’occhiello di Cent’anni di solitudine, pregi che riescono a spazzare via ogni dubbio e preoccupazione iniziale. Un lavoro egregio che è riuscito grazie ad una cura che sfiora il maniacale e che coinvolge ogni aspetto della serie, dalla sceneggiatura alla regia. Peccato, però, per il freno che si sono autoimposti. La fedeltà e la voglia di restituire le sensazioni che l’opera originale suscita si è tradotta in una narrazione lineare e prolissa e in una regia didascalica e senza molti guizzi artistici. Piccoli difetti che vanno a rendere più opaco lo splendore di un lavoro che è a dir poco mastodontico, ma che non rovinano assolutamente la visione o l’ottimo risultato.