Chucky: recensione della serie TV, giunta alla stagione 2
La recensione della serie che continua la saga cinematografica di Chucky, La bambola assassina.
Chucky è una serie ideata da Don Mancini, che si pone come sequel diretto della saga filmica de La bambola assassina. La seconda stagione della serie, trasmessa con discreto successo negli Usa (è stata già confermata una terza stagione), è approdata su Italia 1 a partire dal 15 febbraio 2023.
Don Mancini, sceneggiatore dei primi film de La bambola assassina, ha preso in mano la regia del franchise nel 2004, con Il figlio di Chucky. Già La sposa di Chucky (1998) di Ronny Yu rappresentava una netta virata, per atmosfere, tematiche e messa in scena, rispetto alla lore più canonicamente slaher dei primi tre episodi. Fra citazioni dei classici Universal, in particolare La sposa di Frankenstein (Whale, 1935), estremizzazione degli elementi gore, stemperati da un macabro humour metacinematografico, l’entrata nel cast dell’autoironica Jennifer Tilly e una messa in scena ipercinetica ed action in pieno stile Yu, il film si presentò come uno spartiacque per la saga. Da lì in poi Mancini puntò sempre di più sul camp grottesco – Ne Il figlio di Chucky recita anche John Waters -, accentuò gli elementi di critica sociale e soprattutto mise in essere una regia piena di dutch angle, artifici hitchcockiani e immagini tendenti alla grafica fumettistica. Ciò ha fatto della saga con protagonista la bambola Chucky, una delle più interessanti e originali fra quelle nate dagli slasher anni Ottanta/Novanta.
Chucky – Nella valle delle bambole (assassine): famiglia e scuola
La serie presenta tutti questi elementi, li aggiorna e li inserisce in un meccanismo che utilizza i topoi della serialità teen contemporanea, per portare avanti un discorso peculiare sulla società americana. Nella tradizione del migliorcinema horror, Chucky riesce a incorporare ansie sociali di ordine generale all’interno di una precisa iconografia della paura. In questo caso quella legata al concetto perturbante di bambola vivente, che qui si configura non tanto come il ritorno di una credenza infantile rimossa, quanto come il ritorno della violenza paradigmatica del sistema sociale statunitense. Così nella prima stagione la furia omicida del serial killer Charles Lee Rey, intrappolato nel bambolotto Good Guy, è funzionale a far emergere le contraddizioni insite nel concetto di famiglia tradizionale eteronormata e in quello di sicurezza in una piccola comunità, che sembra fare del politically correct il proprio credo.
Le azioni di Chucky, violente, per niente corrette e soprattutto improntate all’artificio e alla messa in scena melodrammatica, tipica degli horror d’un tempo, innescano un meccanismo di disvelamento di varie ipocrisie e contraddizioni sociali – tra cui quelle legate all’identità di genere e al bullismo – tali da orientare la crescita dei tre protagonisti, gli adolescenti Jake, Devon e Lexy, verso orizzonti poco convenzionali per l’immaginario teen cui si ancora apparentemente la serie. A differenza di tante opere contemporanee più patinate e superficiali, come per esempio Mercoledì di Tim Burton, qui la crescita dei personaggi non corrisponde all’accettazione da parte del gruppo di coetanei o alla riaffermazione dei valori etici della comunità dominante.
L’iconografia della bambola mostruosa, cioè di una merce assoluta, che sfugge al proprio valore d’uso (quello di gioco infantile) per diventare distruttiva, cioè per mettere in crisi il sistema socio-economico che l’ha prodotta, rimanda allo sviluppo della messa in scena della serie stessa. Quest’ultima, apparentemente standardizzata, cioè mercificata, parte dall’uso retorico di establishing shot patinati, primi piani languidi e dialoghi fra il problematico e il sentimentale, tipici del teen drama, per poi lentamente abbattere il proprio stesso disegno narrativo e adottare l’estetica weird/dark – da video alt rock anni 90 – e il linguaggio postmoderno fatto di split screen, dutch angle e chiaroscuri espressionisti, già sperimentato da Mancini nei film della saga da lui diretti. In un gioco ironico e metafilmico, svelato nel finale, l’intera serie utilizza l’immaginario horror per parodiare e ridicolizzare non solo certi valori della società statunitense – la famiglia e le istituzioni scolastiche – ma anche una delle forme narrative che più è stata funzionale alla loro propaganda, il teen drama appunto.
Cruci-fiction in Hollywood: il culto della bambola in Chucky – stagione 2
La seconda stagione di Chucky moltiplica all’ennesima potenza questa tendenza. La serie sposta il proprio obiettivo critico dall’istituzione familiare e scolastica a quella religiosa e psichiatrica: i tre protagonisti, a causa delle azioni della bambola killer, vengono spediti, da una psichiatra, in una sorta di riformatorio/collegio cattolico. Grazie al maggiore spazio concesso alle vicende della Sposa/Tiffany/Jennifer Tilly il tono camp diventa ancora una volta quello dominante. Con esso si impone anche una sottotrama satirica, che riecheggia il romanzo Hollywood Babilonia di Kenneth Anger e il cinema di Ed Wood – il figlio di Chucky fa il suo ritorno nelle vesti dei gemelli Glen e Glenda – per attaccare il vuoto spirituale della cultura statunitense. Rielaborando infatti l’idea stessa di franchise in una cornice metatelevisiva e legandola all’ossessione tutta americana per le celebrities, Chucky ribadisce l’ambiguo legame tra fede religiosa e culto (nerd) dell’immaginario e delle celebrità, quand’anche si tratti di serial killer. Si pone cioè come una riflessione sull’impossibilità delle narrazioni televisive di genere moderne di creare un immaginario originale. Esse sembrano condannate al recupero costante e infinito di immagini e icone della cultura pop, in una sorta di sacra liturgia televisiva e multimediale, che vede nella rappresentazione della violenza il proprio fulcro. Quest’ultima, facendole risorgere dall’oblio nella memoria dello spettatore, rende tali icone sacre esattamente come, nel ripetersi della liturgia cattolica, è resa sacra (e pop) l’immagine (violenta) di Cristo in croce. In una simile ottica le innumerevoli citazioni di film che vanno dagli splatter anni Ottanta più oscuri a Il signore della morte (Rosenthal, 1981), Harry Potter e la pietra filosofale (Columbus, 2001), Arancia meccanica (Kubrick, 1971), L’esorcista (Friedkin, 1973)e Apocalypse Now (Coppola, 1979), non si configurano come meri omaggi cinefili, ma risultano funzionali a restituire l’idea di un mondo costruito sulla rappresentazione della realtà filtrata dall’immaginario spettacolare, piuttosto che su quella della vita reale. Un mondo cioè che ancora una volta si fa immagine, oggetto inanimato, bambola dentro cui però cova un reale rimosso, oscuro e violento, fatto di carne e sangue. In definitiva un mondo di cui la bambola Chucky è perfetto correlativo oggettivo, tanto da arrivare a trasformarsi in feticcio/icona (sacra), venerata da uno stuolo di fan/fedeli.
Cosa ne pensiamo della serie TV Chucky?
La serie Chucky dunque, nonostante qualche piccolo difetto di scrittura, merita sicuramente la visione, soprattutto da parte di chi ama l’horror più weird e grottesco. Cioè quell’horror che, lontano dalle velleità intellettuali del prestige horror, riesce ancora ad affrontare e deridere le ipocrisie di una cultura conservatrice e bigotta, che, al giorno d’oggi, sembra trovare sempre meno spazio nell’entertainment, ma sempre più spazio, purtroppo, nella realtà politica e sociale di troppi paesi.