Cinque giorni al Memorial: recensione del finale di stagione della serie Apple TV+
Cinque giorni al Memorial è uno show straziante che sposta l'attenzione, soprattutto nei tre episodi finali sull'indagine sui 45 morti in ospedale.
Si è conclusa la stagione di Cinque giorni al Memorial, serie tv (dal 12 agosto 2022 su Apple TV+) con la regia e sceneggiatura di John Ridley e Carlton Cuse, tratta da un’inchiesta della giornalista Sheri Fink, che racconta la storia dell’uragano Katrina e gli anni successivi in cui si è indagato su come l’emergenza sia stata gestita, con pochi mezzi e grandi difficoltà per lo staff, i pazienti e le famiglie del Memorial Hospital. Si tratta di un dramma, quello di chi in quell’ospedale ci ha lavorato, di chi lì era paziente e delle famiglie che hanno perso qualcuno in maniera inspiegabile, ed è qui, proprio a questo punto, che gli otto episodi si fanno show horror. Dopo i cinque episodi in cui si mostra ciò che è avvenuto in quei giorni cambia il tono, si indaga sui medici, su coloro che avrebbero dovuto proteggere e salvare e invece sembrerebbe che sotto la supervisione della dottoressa Pou (Vera Farmiga) qualcuno è stato volontariamente lasciato indietro. Al centro della serie quindi c’è una riflessione sul lavoro del medico e sull’etica.
Cinque giorni al Memorial: dopo l’uragano c’è l’investigazione
“Quell’ospedale non era un campo di battaglia, bombardato a colpi di mortaio, era un rifugio, avevano cibo e acqua e barche di salvataggio. Non era meglio correre il rischio […] Il fatto di essere un medico ti autorizza a decidere chi vive e chi muore?. […] Quella povera gente non aveva idea di cosa gli stesse accadendo, non potevano difendersi in alcun modo. Questo fa davvero male.”
La miniserie di Apple TV+ racconta con dettagli orribili quello che è accaduto all’interno dell’ospedale e lo spettatore viene portato lì, dentro il Memorial Hospital di New Orleans nei cinque giorni dopo l’uragano Katrina. La situazione, lo ripetono sempre dottori, infermieri, giornalisti al telegiornale, persone che l’hanno vissuto, è complessa ed è difficile prendere decisioni: l’80% di New Orleans è inondato, i danni sono enormi e le vittime si contano a centinaia. Dentro l’ospedale la temperatura sale, la corrente manca e l’acqua che continua a salire, medici e infermieri si trovano di fronte a una situazione drammatica: sottile e orrorifica, la possibilità di mettere da parte chi non ce la fa. Quando i generatori si sono spenti, infermieri e medici si sono affrettati a portare fuori i pazienti, ma l’orrenda risposta del governo alla crisi non ha aiutato. Entro il quarto giorno, si parlava di come comportarsi sulla gestione del dolore, ai ai pazienti vengono applicati bracciali di colore diverso a seconda che potessero o meno essere salvati. Come dice Wynn, “In quegli ultimi giorni al Memorial, c’era solo miseria”.
Quei 45 cadaveri trovati nella cappella dell’ospedale sono una conta insostenibile e insopportabile. La colpa pesa come un macigno e lo si comprende bene quando la polizia indaga e interroga chi in quel luogo ci lavorava, chi prendeva ordini dalla dottoressa Pou che si sospetta abbia iniettato una dose letale a un numero elevato di pazienti. Gli errori macchiano la coscienza, le infermiere ricordano ciò che è stato e, a poco a poco, si fa strada un’immagine demoniaca di Pou che ha chiaramente invitato tutti ad andarsene. Pou è capro espiatorio di un sistema più grande o è una assassina che ha iniettato una dose letale a un numero elevato di pazienti? Sicuramente emergono fin all’ultimo episodio le difficoltà del sistema sanitario americano con ospedali gestiti da corporazioni che non pensano ai malati; è tragico vedere come l’ospedale, luogo in cui la protezione dovrebbe essere al massimo, diventi luogo della paura. Per causa di forza maggiore, nessuno ha potuto lavorare al massimo delle proprie possibilità.
Cinque giorni al Memorial è uno show straziante che sposta l’attenzione, soprattutto nei tre episodi finali sull’indagine sui 45 morti in ospedale.
Cinque giorni al Memorial: l’assenza degli aiuti e la condizione difficile in cui i medici hanno lavorato sono i perni del racconto
Ci sono varie linee narrative: da una parte l’indagine che si concentra su Pou e sui suoi errori, dall’altra Pou che continua a lavorare e a dichiararsi innocente nonostante i racconti di chi era con lei in quei tristi giorni diano un’idea precisa su come siano andate le cose, infine le immagini di repertorio che come delle lame si conficcano negli occhi di chi guarda.
“Qual è il valore di una vita umana? Quali condizioni possono giustificare il porre fine a delle vite? Sono queste le domande sollevate da questo caso”
Intorno a questo si concentra la miniserie: da una parte c’è l’assenza dei giusti aiuti, dall’altra il valore della vita umana, da una parte c’è il non voler far soffrire, dall’altra l’imperativo categorico: salvare chiunque, provare a farlo fino alla fine, a tutti costi. L’essere lasciati soli può determinare una scelta estrema? No, assolutamente. Quegli uomini e quelle donne abbandonate sono un colpo al cuore e l’idea che, alla fine, a causa o grazie al curriculum vitae di Pou, non ci sia nessun colpevole, è difficile da sopportare soprattutto perché erano chiare le responsabilità. Sembra evidente che Pou sia colpevole ma lei è sempre stata integerrima, lei ha fatto il possibile per salvare più pazienti ma non ha potuto fare di più perché è stata abbandonata dallo Sato. Può bastare? La risposta è solo una: no.
Pou, una colpevole crudele o un’eroina integerrima?
“Siamo stati lasciati soli. Io sono solo un medico. Il dovere di curare sembra facile, sembra grandioso ma nella pratica non sempre è così. Io so, in cuor mio, che ognuno di noi, nessuno escluso, in quell’ospedale ha fatto tutto ciò che poteva per confortare e per curare. Nessuno è stato abbandonato, nessuno è stato trascurato e tutti sono stati trattati con dignità”
Pou continua a lavorare, dichiara la sua innocenza, a tutti racconta la sua verità che spesso non coincide con quella degli altri: piccole cose nei suoi ricordi sono diverse e cambiano totalmente la situazione. Mentre tutto intorno a lei crolla, la dottoressa si mostra una divinità che non cede mai, quando piange, quando invoca dio lo fa in casa, con il marito, con il suo avvocato, con qualche amico o collega. Di fronte a tutti è un’eroina che non ha neanche un briciolo di dubbio su di sé e sul suo operato. Sono gli altri ad aver sbagliato, lei, loro non hanno alcuna macchia. Hanno fatto ogni cosa, hanno curato, accarezzato, accudito, hanno fatto ogni cosa in loro potere.
Cinque giorni al Memorial: una miniserie che spinge alla riflessione e smuove le emozioni
Cinque giorni al Memorial fa arrabbiare, piangere, lascia senza parole lo spettatore che è squarciato da un racconto che attinge alla realtà. La miniserie, nonostante qualche episodio meno forte – soprattutto nella seconda parte -, riesce a portare a termine il suo lavoro grazie ad una scrittura potente, millimetrica, ad un cast eccezionale che si porta addosso una storia non semplice, ad una regia asciutta, quasi documentaristica a tratti.