Come insabbiare uno scandalo stupefacente: recensione della miniserie Netflix
Tra scandali giudiziari e droghe prende piede una storia vera a cui si fatica a credere.
Quattro episodi per raccontare una delle vicende giudiziarie più assurde della storia del Massachusetts. Una donna, il suo lavoro e una caduta libera verso l’inferno che inghiotte tutto ciò che sta intorno. Questo è ciò che racconta Come insabbiare uno scandalo stupefacente che arriva sulla piattaforma Netflix, sulla scia lasciata da Tiger King, il primo aprile 2020.
La miniserie è realizzata da Erin Lee Carr, la documentarista madre di opere come Thought Crimes: The Case of the Cannibal Cop, Mommy Dead and Dearest e I Love You, Now Die: The Commonwealth Vs. Michelle Carter. La vicenda parte da un’inchiesta, And Justice For None: Inside Biggest Law Enforcement Scandal in Massachusetts History, scritta dal reporter Paul Solotaroff, e analizza in profondità il complesso caso giudiziario che interessa Sonja Farak, chimica di laboratorio della Massachusetts State Police, ad Amherst, professionista che aveva il compito di eseguire le analisi forensi delle droghe che i poliziotti sequestravano e portavano in centrale, analizzando i campioni per determinare la composizione chimica di ogni sostanza.
Come insabbiare uno scandalo stupefacente: dolore che provoca altro dolore
Cosa ha spinto Farak a rubare la droga dal laboratorio per uso personale? La sua fragilità; ormai da molto tempo era depressa, di una depressione talmente profonda da farle pensare di togliersi la vita. La droga a portata di mano è un porto sicuro, un “luogo” in cui perdersi e rendere la sua sofferenza più sopportabile almeno per un po’. Sin dal primo giorno in quel laboratorio la donna diventa dipendente dalle droghe che avrebbe dovuto testare: metanfetamina liquida, crack e LSD, cocaina sono note di un nuovo pentagramma in cui il buio si fa salvezza.
La storia è un poema “documentaristico” del disfacimento: la donna, almeno all’apparenza, era una studentessa modello, un’atleta eccezionale, una professionista che lavorava in maniera certosina – ma dentro aveva un male che la mangiava – e ora quella realtà emerge, lei è l’ombra di se stessa, falsifica per anni migliaia di referti, compromettendo molte condanne penali. Nel 2013 viene arrestata, si dice ciò che poi forse tutti sanno: è una tossicodipendente e questo per l’accusa è sintomo della sua inattendibilità professionale. Durante la deposizione, in tribunale, mente sapendo di mentire – poi ammette che di fronte al giudice si era presentata ubriaca -, compare con il volto segnato, spento, la faccia di chi teme ogni cosa e vede ciò che non c’è; questo si aggiunge all’idea che lo spettatore si è fatto della donna di episodio in episodio.
Come insabbiare uno scandalo stupefacente mostra come Farak abbia provato prima quasi per scherzo la droga che poi è diventata una vera e propria ossessione, arrivando addirittura a sintetizzarla usando i suoi sofisticati strumenti. La grammatica del documentario è semplice, anche attraverso i resoconti di chi c’era, si percorrono gli anni – addirittura per spiegare in maniera più chiara possibile gli eventi si mostrano i fatti su una linea del tempo per dare il senso dei danni fatti dalla donna e dal sistema – in cui Farak ha infranto la legge. Erin Lee Carr spoglia il caso come fosse un fiore, di petalo in petalo emerge il pistillo/la verità. Il dramma di Farak è molto più profondo di quello che si può pensare per la vita personale della donna (un’esistenza di depressione e solitudine, il matrimonio difficile, il rapporto complesso con il suo corpo) ma anche perché riguarda qualcosa di molto più grande.
Come insabbiare uno scandalo stupefacente: una storia vera che è spaventosa più di molti racconti orrorifici
Netflix porta sulla piattaforma un crime nero, sconvolgente perché riguarda la realtà e nulla è più inquietante di vedere rappresentata su piccolo o grande schermo le nostre storture e le nostre ombre. Tutto si illumina di una luce ancor più oscura e drammatica quando si fa strada la certezza che si tratta di qualcosa di più grosso che ha a che fare con il sistema giudiziario; si scoperchia un vaso di Pandora da cui appare una fotografia inquietante, ridisegnando il caso Farak come il più grande scandalo che ha coinvolto le forze dell’ordine nella storia del Massachussetts. Come ha potuto un intero dipartimento coprire decine di migliaia di test antidroga falsificati per anni?
Sembra un film eppure è pura e “semplice” realtà; Farak ha falsificato moltissimi test decretando la condanna di molte persone (le storie di Renaldo Penate e altri che hanno scontato la pena in carcere a causa dei test fatti da Farak quando non era in sé). In un primo momento è stato fatto credere che si fosse drogata negli ultimi sei mesi della carriera, solo alla fine è stato chiarito che la sua dipendenza era iniziata nel 2004 e che quindi tutti i test da lei fatti dovevano essere rivalutati. Avvocati, colleghi della Farak hanno finto di non vedere, hanno falsificato e nascosto le prove (Foster, il vice procuratore generale responsabile del caso di Farak, ha rifiutato di consegnare alcune prove, soprattutto i fascicoli trovati in un secondo momento nell’auto della sua cliente), diventando rappresentazione di un organo malato.
La storia di Farak si intreccia a quella di Annie Dookhan, un’altra chimica che viene arrestata a Boston per aver falsificato dei test nel suo laboratorio.
Come insabbiare uno scandalo stupefacente: una miniserie che spaventa e pone interrogativi
Erin Lee Carr compone grazie alla sua protagonista un true crime portando lo spettatore in un mondo che sembra un imbuto attraverso cui deve necessariamente passare. Non si limita alla semplice ricostruzione dei fatti, mentre si guardano gli episodi ci si pongono domande su quanto possa essere inquietante trovarsi intrappolati in un sistema molto più grande che protegge chi vuole e mette in pericolo chi è meno importante nella scala sociale.