Curon: recensione della serie TV italiana di Netflix
Dal 10 giugno arriva sulla piattaforma la nuova miniserie made in Italy targata Netflix. Un supernatural drama che mescola segreti e orrori latenti pronti a implodere sullo schermo.
È stata per mesi l’oggetto misterioso della serialità Netflix made in Italy, alimentando giorno dopo giorno, indiscrezione dopo indiscrezione, la curiosità del pubblico e degli addetti ai lavori. Ma anche per Curon è giunto il momento di mostrarsi al mondo, con la data X di rilascio sulla piattaforma fissata al 10 giugno. Da quel momento si potrà giocare finalmente a carte scoperte e lo spettatore avrà l’opportunità di sciogliere la fitta e intricata ragnatela di segreti e orrori che avvolge la storia al centro della miniserie in sette episodi prodotta da Indiana Production e diretta a quatto mani da Fabio Mollo e Lyda Patitucci.
Curon: la maledizione del campanile sommerso
Pochissimo è permesso diffondere – come è giusto che sia – per quanto riguarda le evoluzioni narrative e drammaturgiche del racconto e dei personaggi che lo animano. Del resto, per progetti come questi nei quali la linea mistery e il suo dipanarsi nell’arco orizzontale è fondamentale, un dettaglio di troppo sulla e della trama potrebbe innescare una reazione a catena fatale ai fini della fruizione. Per non correre nessun rischio di spoiler ci limiteremo a ricordare che la serie ruota intorno al personaggio di Anna (Valeria Bilello), una madre che dopo diciassette anni decide di tornare nella sua città natale, Curon Venosta, un paesino del Trentino Alto-Adige in provincia di Bolzano, situato a circa 5km dal confine austriaco. Li sorge una chiesa antica di cui oggi si vede solo il campanile, poiché l’edificio trecentesco è stato completamente sommerso dalle acque del Lago di Resia. Ma nonostante le campane siano state rimosse da oltre cinquant’anni, secondo la leggenda è possibile sentirne ancora il suono in alcune giornate di inverno.
Ed è proprio questa leggenda destinata a non essere più tale a gettare benzina sul fuoco, divampando sullo schermo quando la protagonista e i suoi due figli gemelli, Mauro (Federico Russo) e Daria (Margherita Morchio), decideranno di mettere piede in quei luoghi per provare a rifarsi una vita. L’accoglienza del padre (Luca Lionello) e della popolazione locale a questo improvviso ritorno non è però dei migliori, con il passato e i rancori di un tempo che si vanno a mescolare con le minacce del presente. Quando Anna un giorno scompare misteriosamente nel bosco, i due ragazzi dovranno fare i conti con i segreti che si celano dietro l’apparente tranquillità della cittadina, trovandosi faccia a faccia con un lato della loro famiglia che non avevano mai conosciuto prima e con la “battaglia” quotidiana con la gente del posto.
Curon: si può scappare dal passato, ma non da se stessi
Morale della favola – che poi favola non lo è per niente come vedremo – è che si può scappare dal proprio passato, ma non da se stessi. Per cui i giovani protagonisti avranno a che fare con il proprio percorso di crescita, fuori e dentro le mura del tetro e maledetto albergo di famiglia che li ospita. Ed è su questo duplice binario drammaturgico che si sviluppa e si dipana, episodio dopo episodio, sino allo showdown, una serie che ha i suoi alti e bassi, i suoi punti di forza e talloni d’Achille.
Dopo una pilota che getta in maniera sufficientemente corretta le basi del racconto, consegnando al pubblico le chiavi d’accesso utili alla navigazione e i biglietti da visita delle figure principali e secondarie che gravitano intorno alla vicenda, si assiste a un momentaneo blackout nell’efficacia della scrittura. Questa nel tentativo di mescolare ulteriormente le carte e nasconderne delle altre al fine di depistare il fruitore di turno, finisce con lo girare a vuoto per alcuni episodi come un criceto in gabbia a causa di digressioni e parentesi aperte e chiuse futili nell’economia del racconto, per poi riprendere la retta via in maniera più solida e convinta dopo il giro di boa del quarto capitolo. In questa fase di stallo non mancano i primi momenti di tensione e delle scene dal forte impatto, ma è dal quinto episodio che Curon ingrana la giusta marcia, mostrando il suoi lati migliori.
L’ambientazione e la sua geolocalizzazione sono ben note, esplicitate dal nome di battesimo che lo showrunner Ezio Abbate e il resto della brigata di sceneggiatori composta da Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano, hanno dato alla serie. Sin dai primissimi minuti è lampante come la località in questione dove si svolgono gli eventi non sia una mera cornice, ma rappresenti a sua volta un vero e proprio personaggio con il quale entrare in rotta di collisione. Lì accadono cose molto strane che si vanno a intrecciare con le dinamiche personali di chi le popola. Dal mix di folklore, religione, immaginifico e realtà, prende forma e sostanza un supernatural drama che si consuma e si stratifica in una progressione non lineare degli eventi che viene continuamente interrotta da salti temporali che riavvolgono le lancetta dell’orologio. Ciò trasforma gli episodi nelle parti di un mosaico, i cui tasselli riemergono gradualmente dalle acque del lago, dalla boscaglia, dal buio della notte che avvolge la stragrande maggioranza delle scene, dalle stanze dell’albergo e dai luoghi inaccessibili che circondano il paesino.
Curon: una trama stratificata, che si fa più coinvolgente mano a mano che ci si avvicina all’epilogo
Nel suo dipanarsi Curon chiama in causa il tema del doppio, dello scontro tra il bene e il male, della lotta per la sopravvivenza in una terra ostile, oltre a quelli chiave del romanzo di formazione e dei legami biologici. Insomma, moltissima carne al fuoco, che gli sceneggiatori e i due registi che si sono alternati dietro la macchina da presa, hanno saputo gestire senza disperderne e sminuirne il potenziale e il significato intrinseco. Qualcosa però sfugge al controllo e non viene approfondito quanto avrebbe meritato, ma è un effetto collaterale inevitabile quando ci si trova a fare i conti con una discreta mole di cose da dire, mostrare e spiegare.
Il risultato è una trama stratificata, che si fa più coinvolgente mano a mano che ci si avvicina all’epilogo. Non c’è da aspettarsi grandissimi colpi di coda dal punto di vista dell’originalità, ma gli ingredienti utilizzati per la ricetta sono comunque ben dosati. Sicuramente la cura fotografica, la qualità della regia e la buona performance corale, tanto nei personaggi principali quanto secondari (spicca quella di Anna Ferzetti nel ruolo di Klara, un’insegnate del luogo), consentono alla serie di restare saldamente ancorata alla soglia della sufficienza.