Dan Brown – Il simbolo perduto: la recensione dei primi episodi della serie Sky
La serie racconta la prima avventura del professor Robert Langdon.
Dan Brown – Il simbolo perduto è la nuova serie TV creata da Jay Beattie e Dan Dworkin e basata sull’omonimo romanzo del noto autore di thriller statunitense. Lo show racconta la prima avventura del professore di simbologia Robert Langdon, già protagonista de Il codice Da Vinci, Angeli e Demoni e Inferno. Prodotto da Universal Television in collaborazione con Imagine Television Studios e CBS Studios, in Italia è trasmesso da Sky e le prime due puntate saranno disponibili a partire dal 8 novembre.
Nonostante lo sceneggiato ci mostri un Langdon più giovane di quello interpretato da Tom Hanks nei film diretti da Ron Howard (che è coinvolto in questo progetto come sceneggiature), le vicende sono state traslate ai giorni nostri. In totale, la serie è composta da 10 episodi della durata di 45 minuti circa.
C’è del marcio al campidoglio
La prima puntata di Dan Brown – Il simbolo perduto si apre con il professor Robert Langdon – che è interpretato da Ashley Zukerman (Fear Street, Succession) – intento a insegnare a Harvard. Durante la lezione viene contattato dall’assistente del suo mentore, il professor Peter Solomon (Eddie Izzard), che gli chiede di raggiungere Solomon a Washington per prendere parte a una conferenza da tenersi all’interno del Campidoglio.
Quando Langdon arriverà in loco scoprirà però una terribile verità: quello che si è spacciato per l’assistente di Solomon è in realtà il suo rapitore, che sempre tramite telefono gli intima di aiutarlo a trovare la posizione di un misterioso portale. Per salvare il suo maestro Robert dovrà quindi arrivare a capo di un mistero che affonda le sue radici nei meandri del culto massonico; non dovrà affrontare tutto questo da solo: ad accompagnarlo ci saranno l’agente della CIA Inoue Sato (Sumalee Montano) e la figlia di Solomon, nonché sua vecchia fiamma, Katherine (Valorie Curry).
La trama de Il simbolo perduto contiene tutti gli ingredienti a cui ci hanno abituato i precedenti adattamenti del lavoro di Dan Brown: un mistero che se rivelato potrebbe sconvolgere per sempre il mondo, un antagonista efferato e pronto a tutto pur di raggiungere il suo scopo e, soprattutto, il brillante professor Langdon, acuto, scettico e pronto a esporsi in prima persona per il bene dell’umanità e di coloro che ama.
Il principale cambiamento rispetto alle pellicole di Howard riguarda proprio il protagonista. L’uomo maturo, sicuro di sé e forte del proprio bagaglio culturale, è sostituito dal giovane adulto che, di fronte alle insidie che è chiamato ad affrontare, teme di scoprirsi non all’altezza. Si tratta di un cambiamento affascinante, che in questi primi episodi contribuisce non poco alla creazione della tensione.
Dan Brown – Il simbolo perduto: senza infamia e senza lode
Se la sceneggiatura contiene al suo interno diversi spunti interessanti, lo stesso non si può dire per la messa in scena, che risulta piuttosto piatta in entrambi gli episodi. Nonostante questi siano girati da due persone diverse (il primo da Dan Trachtenberg e il secondo da Mathias Herndl) si fatica a trovare al loro interno una identità visiva univoca. Questa assenza è forse dovuta alla volontà di costruire un’estetica che accompagni la serie per la sua intera durata ma, da quello che abbiamo avuto modo di vedere, non sembra questo il caso.
L’assenza di un punto di vista specifico si percepisce soprattutto quando la serie ci porta all’interno degli edifici storici della capitale Statunitense. Nonostante questi abbiano un ruolo importante all’interno della vicenda, i registi non sono in grado di far risaltare i loro aspetti caratteristici. Questa è forse la più grande occasione perduta di questo prodotto, che avrebbe potuto utilizzare la spiccata identità delle stanze che i protagonisti attraversano per creare la necessaria atmosfera di suspense, che in più di un’occasione è invece latitante.
Infine, non contribuisce alla buona resa visiva di Dan Brown – Il simbolo perduto la trasposizione ai giorni nostri delle vicende che, pur non essendo di per sé un difetto, finisce per fornire ulteriori evidenze dell’assenza di una specifica idea di messa in scena. Come per quelli trattati nei precedenti paragrafi, anche questo elemento non è infatti utilizzato al fine di costruire un immaginario.
Mancanza di carisma
Nonostante sia composto da attori capaci, anche il lavoro svolto dal cast non riesce a convincere del tutto. In particolare, a lasciare qualche dubbio sono Ashley Zukerman, che come si è detto interpreta il protagonista, e Beau Knapp (Il giustiziere della notte – Death Wish), che presta le proprie sembianze al principale antagonista.
Per capire a fondo la validità del personaggio interpretato da Knapp è probabilmente necessario vedere per intero la prima stagione di Dan Brown – Il simbolo perduto e, pertanto, ci riserviamo dal dare un giudizio definitivo. Certo è che, per quanto abbiamo visto in queste prime due puntate, il villain da lui interpretato non brilla di certo per carisma. In questo non è particolarmente aiutato dalla scrittura che, tramite i pochi dialoghi a cui prende parte, non gli consente di sviluppare una propria voce e lo fa sembrare un cattivo generico.
Diverso è il problema che riguarda il Langdon di Zukerman. Si è accennato al fatto che la sceneggiatura sia capace di mostrare la versione giovane e insicura del noto personaggio, ma l’interpretazione dell’attore pone eccessiva enfasi su questo aspetto. Di fatti, non lascia quasi mai trasparire quell’intelletto rapido che, animato dalla ferrea razionalità, rende il professore capace di venire a capo anche del più intricato degli enigmi. Le sue azioni risolutive, anche quando derivanti da intuizioni brillanti, finiscono quindi per sembrare quasi dei colpi di fortuna, dovuti più alla frenesia del momento che al ragionamento del personaggio.
Più interessante è il lavoro svolto dagli altri attori e, in particolare, colpisce in positivo Valorie Curry (The Following, Blair Witch), che era chiamata a interpretare un personaggio non facile. La sua Katherine è infatti divisa tra la paura per la sorte del padre e il fascino per le verità che la loro ricerca può portare a galla e, tramite la sua interpretazione, la Curry è capace di rendere visibile al pubblico questa particolare contraddizione.