Emily in Paris – stagione 3: recensione della serie TV Netflix
Dalla (benedetta) frivolezza alla sconfortante vuotezza: Emily in Paris 3 è un flop.
Tanto attesa quanto deludente, Emily in Paris 3 soccombe a giovani protagonisti senza nerbo, addomesticati nel desiderio e nella spinta vitale. Per fortuna, però, ci sono i ‘vecchi’ amanti: la scena è tutta loro, in attesa di un quarto appuntamento che auspichiamo più ‘a fuoco’. In tutti i sensi.
Emily in Paris 3: da piccolo piacere a grande noia, il passo è breve.
Peccato perché Emily in Paris, nel primo e secondo capitolo, ci era sembrato un pétit plaisir, come la McBaguette di cui la protagonista, all’inizio della terza stagione, immagina di curare la campagna pubblicitaria: un piccolo lusso colpevole, un capriccio, un peccato dettato dalla frivolezza, un godimento che proviene dalla consapevolezza dell’autoindulgenza. I dieci nuovi episodi, disponibili su Netflix da mercoledì 21 dicembre 2022, sconfessano invece l’impressione iniziale e lo stesso principio celebrato dalla serie: più che un piccolo piacere, Emily in Paris 3 rappresenta un prolungamento forzato del primo e secondo atto, un’estensione del divertissement che si capovolge nel suo contrario. Il gioco è bello quando dura poco. O lo si alimenta o è meglio passare oltre.
Se Emily Cooper (interpretata da Lily Collins), ingenua americana di Chicago, instancabile lavoratrice, tutta senso del dovere e facile agli entusiasmi di fronte agli esotismi europei, nei primi due capitoli della serie aveva imparato l’arte francese del bon vivre, nel terzo si ritrova di fronte a un dilemma tradizionale delle nostre drammaturgie ‘esistenzialiste’: seguire, fino alle estreme conseguenze, il proprio desiderio oppure fare la cosa che, secondo criteri razionali, sarebbe più giusta? Viene scomodato persino Jean-Paul Sartre, ma il suo nume non nobilita la rappresentazione stanca, infiacchita, anziché vivacizzata, dal dilemma.
Caro Gabriel, dove sei?
Emily è divisa tra Alfie, businessman londinese provvisto di addominali e senso pratico, con cui sembra intenzionata a costruire, e Gabriel, chef normanno dai begli occhioni cigliuti e liquidi, nei confronti del quale avverte il richiamo ‘animale’, l’intesa sottopelle. Quest’ultimo, fin dall’inizio, ci aveva affascinato coi suoi sguardi languidi e l’aria mascalzonesca pur nella raffinatezza: incarnava il sogno dell’amore romantico, del palpito che tiene insieme affinità ed eros. Se Alfie porta Emily a bordo di un bolide di lusso; il secondo la introduce ai sapori in contrattempo dell’alta cucina. I due impersonano non solo i poli opposti della ragione e del sentimento, ma anche la tensione che spesso dicotomizza le nostre vite sentimentali: l’amore affettuoso e costante, da una parte; l’amore imprevedibile e spiazzante, quello che apre a una crisi di valori e d’identità, dall’altra.
Gabriel, però, lo ritroviamo nella terza stagione e quasi non lo riconosciamo: si muove come copia sbiadita del prince charmant che fu. Gli sceneggiatori non hanno ‘lavorato’ il personaggio, per lui hanno deciso che, per quest’anno, bastasse (e avanzasse) che prestasse il corpo a svolgere la funzione di belloccio che spadella e mette l’accento sulle sillabe finali delle parole. Interpreta, con il minimo sforzo, il fantoccio del francesino biondo e bello che vuole una stella Michelin. Se avessimo voluto contemplare e basta, avremmo cliccato un portfolio. Ma noi volevamo un personaggio vero.
La sovrapposizione di due triangoli amorosi nei quali è coinvolto – anche per la sua fidanzata ufficiale, Camille, è tempo di nuovi scuotimenti – poco o nulla serve a movimentare l’inerzia di fondo: non chiediamo a Emily in Paris caratterizzazioni psicologiche di grande finezza e mobilità, ma senza psicologie anche solo abbozzate, delineate per sommi capi, è impensabile ipotizzare l’attuazione di processi di sintonizzazione emotiva e di partecipazione. La precipitazione degli eventi che porta alla rivelazione shock della chiusura appare, in questo ottica, forzata e fuori contesto. Le cose si complicano (e molto) nel momento in cui sembrano sciogliersi, ma sia la complicanza sia la risoluzione risultano slegate dal contesto: puri accadimenti esteriori, subiti dai personaggi quasi fossero calamità fatali, di e su cui non sembrano aver parte.
Emily in Paris 3: Ok, Boomer! Anzi, no. Meno male che ci sono loro, gli âgées.
A riscattare la serie dalla desolante insulsaggine dei personaggi più giovani e dei loro pavidi amorini mal raccontati sono, per fortuna, le liaison dei più âgées. Sylvie, in particolare, illumina la scena e si carica sulle spalle il compito di sorreggere lo show, da regina sofisticata della commedia – anche dei sentimenti e delle loro maschere – qual è: grazie alla sua eleganza contemporanea, chic e nel contempo graffiante, al suo carisma e alla sicurezza della donna esperta di vita, riacciuffa chi, di fronte alle presenze amorfe degli altri, sarebbe tentato di interrompere la visione prima della fine.
Gli amori di Sylvie, tra nuove passioni acerbe, vecchi fuochi (e che fuochi!) mai spenti e seduzioni opportunistiche, compensano ciò che manca altrove. È interessante come gli showrunner, così negligenti in altri aspetti, abbiano lavorato sulla rappresentazione della sessualità matura, che emerge più disinibita e gioiosa di quella dei più giovani. Del resto, se le Francesi ci hanno insegnato qualcosa, è che l’età non bisogna contrastarla, ma assecondarla, farsela amica, prendersi tutto quel che ancora può dare, senza complessi di sorta. Il modo in cui Philippine Leroy-Beaulieu, nel diventare Sylvie, attraversa a rapide falcate Parigi coi suoi piccoli seni al vento e le sue rughe non riempite non può che essere d’ispirazione e di conforto: esistono donne che rifiutano tanto di eternarsi bamboline quanto di mummificarsi. Il personaggio di Sylvie celebra queste donne mai paghe, mai annoiate, mai sedute sulle lagnosaggini da eccesso di privilegi I Millennials, al contrario, si confermano avviliti nei loro tepori. Troppo presi a filosofeggiare e a rincorrere trofei di carriera, l’impressione è che, nonostante gli sforzi di dimostrare il contrario, si perdano la vera festa. E la facciano saltare anche a noi che, di qualunque età, d’altra parte dello schermo, seguiamo le loro vicende. Molto spesso sbadigliando.