Emily in Paris 4 stagione – parte 2: recensione
L'atteso secondo atto di Emily in Paris 4 trascina la sua eroina fuori da Parigi. Eppur non si muove!
Nello spezzone conclusivo della quarta stagione, ‘Emily in Paris’ si apre dinamicamente a nuove geografie, senza però cesellare nuovi immaginari né tantomeno scavare nuove rotte interne: Emily, neo-Audrey Hepburn, si avvinghia in Vespa a un italiano naturalmente ancora attaccato alle sottane di mammà. Gli sceneggiatori non si chiedono cosa muova la loro eroina, ma comunque la fanno sfrecciare. Ma verso quale destinazione?
Emily in Paris 4 – parte 2: da Parigi a Roma, tra vecchi e nuovi amori, Emily e i suoi si muovono molto, ma non vanno da nessuna parte
Netflix, si sa, è un outlet che non va per il sottile. Rende disponibili i suoi prodotti sullo scaffale e quasi se ne disinteressa: andranno bene o andranno male; decide l’algoritmo, salvo rari casi, come Baby Reindeer, in cui il passaparola o l’intervento critico hanno l’opportunità di determinare il successo di qualcosa di valore. Se uno show viene dunque diviso in due parti, come già Bridgerton e ora Emily in Paris, è segno inequivocabile che è uno di quelli da cui ci si aspetta che, bene o male, se ne parli, uno di quelli su cui si punta tutto per ingrossare hype e (quindi) tornaconto economico.
L’attesa, per questa tranche finale della quarta stagione, è stata montata a neve dalla frusta dell’assillo pubblicitario e da alcuni frammenti trapelati con calcolo tanto sapiente da far gola anche ai più avveduti: sapevamo che Emily sarebbe in qualche modo finita a Roma (e dintorni) a fare il verso a Audrey Hepburn, che Lily Collins vagamente ricorda nell’incarnato candido e nella silhouette raso ossa, e in effetti trepidavamo di vederla in versione turista ostaggio di meraviglia per il Belpaese. Belpaese che paventavamo già imbalsamato in una serie di stereotipi: il sole accecante, il cibo succulento, il vociare chiassoso, la famiglia sempre e comunque padrona dello spazio affettivo, con l’immancabile protagonismo di una madre-matriarca che, per quanto affettuosa e desiderosa di fare il bene del figlio, non manca di schiacciarlo con la sua presenza monumentale. L’immaginazione non è stata smentita dai fatti: oltre al brand parigino, il secondo capitolo di Emily in Paris 4 promuove il lifestyle italiano, celebrando la versione meno decadente, e dunque più innocua, della dolce vita. Anzi di una sua variante oggi più ben più instagrammabile: la vita lenta.
Emily si sposta molto nei cinque episodi conclusivi della stagione, più di quanto non abbia mai fatto finora, ma si tratta di un dinamismo di superficie, di una stagnazione mascherata dal suo contrario: lei e i suoi compagni d’avventura passano con grande velocità da una peripezia all’altra. Fanno cose, vedono gente, direbbe Nanni Nanni Moretti. Cambiano passo, accelerando di continuo: avanzano o retrocedono, non è questo il punto né si tratta tantomeno di un girotondo, di un girare intorno al vuoto. Semplicemente, quanto ci viene mostrato secondo un ritmo appunto molto sostenuto di avvicendamenti amorosi (o pseudotali) e accadimenti esistenziali (o pseudotali) non trova mai corrispondenza in una maturazione psichica che, in modo attendibile, giustificherebbe l’avvicendamento o l’accadimento di cui sopra: sembra che i personaggi, come marionette, si agitino per azione di una mano superiore e non di una scelta o di un desiderio propri, di una spinta interna, deliberante o deliberata (inconsciamente) che si voglia. Emily in Paris ci cala in un’atmosfera da fumetto, in uno spazio orizzontale, su cui scivolano stretti in successione eventi tra loro cronologicamente progressivi – per quanto con qualche svista, come il pancione di Camille, sedicente gravida, che non cresce mai – ma emotivamente incoerenti, e in un tempo piatto, privo di dimensione, che non determina nessuna risonanza nella psiche dei soggetti, e anzi accumula soltanto vicissitudini indeterminate, compulsate da un deus ex machina arbitrario e accumulatore.
Emily in Paris 4 – parte 2: valutazione e conclusione
Emily, dopo una falsa partenza per Chicago e una falsa partenza in una pista da sci, parte, infine davvero, per inseguire in Italia un nuovo cavaliere – non a caso un giocatore di polo – per cui apparentemente si infiamma senza troppi capogiri: “lo stallone italiano”, come lo chiama Mindy, che però dello stallone ha in verità molto poco. Interpretato da Eugenio Franceschini, l’unica scelta felice all’interno della componente italiana del cast per il resto poco azzeccata a partire dal legnoso Bova e dalla lagnosa Galiena, il personaggio di Marcello riscrive il cliché dell’italiano gentiluomo un po’ sornione, sacrificando l’impetuosità sessuale – Italians do it better non funziona più neanche come réclame – per un fascino più discreto, quasi hipster, che trova in uno sguardo furbetto e vagamente malizioso il suo biglietto da visita. Nel secondo atto della storia appare però confermato ciò che era già emerso con chiarezza nel primo: l’eros non appartiene ai personaggi più giovani della serie, tutti impacciati, inibiti o presi da altro, tra indecisioni sentimentali, emotività rallentata e fardelli relazionali di cui non hanno il coraggio di disfarsi.
La loro esistenza de-erotizzata intristisce, ma, del resto, la stessa Sylvie, molto celebrata incarnazione di una femminilità sicura di sé, disinibita, liberata da remore sessuali, ci sembra, in questa battuta finale del racconto scenico, più che mai sterilmente schiava del suo personaggio di sessantenne a cui basta un solo ammiccamento per prendersi ciò che vuole. Dietro il suo comportamento dongiovannesco, si cela forse un atto di forza, una volontà di controllo, la determinazione alla fuga dai sentimenti. Sarebbe interessante che la dimensione della paura ‘corretta’ o rivelata dalla spavalderia del personaggio venisse approfondita, utilizzata a fini drammaturgici, ma, neanche bisogno di dirlo, ciò non avviene. A vederla tra le braccia del suo amante italiano, interpretato da un Raoul Bova imbolsito e al grado zero di sex appeal, suscita più compatimento che compiacimento. I personaggi che abbiamo imparato a conoscere nel corso della rappresentazione seriale, a cui si aggiungono ora le nuove leve, non vengono indagati mai nei loro tratti o sentimenti soggettivanti, ma fungono da tipizzazioni macchiettistiche, figurine senza interiorità o abortite nelle loro psicologie, sagome che si prestano allo svolgimento del plot senza parteciparvi, in una estraneità che diverte – nel senso che distrae – e inquieta insieme. Conclusa la visione, viene da chiedersi se gli episodi visti siano stati una successione di reel importati da TikTok: tutto procede troppo velocemente, senza un accenno di dimensionalità o di interpretazione personale, di soggettivazione del fatto sperimentato.
Tra levità finanche un po’ frivola e vacuità di un discorso drammaturgico c’è una differenza notevole, e forse non si può più deresponsabilizzare gli autori di Emily in Paris attribuendogli un ricercato disimpegno. A Emily in Paris non basta più impacchettare e impomatare qualche buona intuizione di temi o caratteri, ma occorre richiederle per la prossima stagione – il finale della quarta è apertissimo, dunque ci sarà con cristallina certezza – una maggiore disponibilità alla scrittura dei personaggi, dei loro moventi e dei loro movimenti non solo esterni, ma anche e soprattutto interni. Il budget che i produttori hanno destinato alla pubblicità ci auguriamo venga allocato altrove, magari a finanziamento del lavoro di bottega degli sceneggiatori: anche in un prodotto che nasce per essere di mero consumo serve anima. Che poi è soffio vitale, aria che circola, squarcio imprevedibile e imprevisto su una qualche verità profonda o superficiale, profonda perché superficiale, guizzo nell’acqua mossa. Un tuffo che interrompa il galleggiare troppo protratto in distese che varrebbe la pena intorbidire un po’, increspare di traiettorie meno inoffensive.