Emily in Paris 4 stagione – Parte 1: recensione della serie TV
La quarta stagione di Emily in Paris entra nella “zona grigia” e chiede ai suoi personaggi di tracciare confini tra privato e pubblico, tra necessità di difendere la propria intimità e coraggio di esporsi per la giusta causa.
Emily in Paris torna con la sua quarta stagione a Ferragosto: scelta distributiva singolare dal momento che i racconti di fate e cavalieri s’addirebbero a stagioni ben più tiepide. Eppure, la pubblicitaria Cooper (Lily Collins) che presta il nome alla serie è in fondo cresciuta, meno ingenua di come la ricordavamo e anche meno melensa. Non è più la principessa sul pisello a cui va insegnata ogni cosa. Arrivata da protagonista (almeno in cartellone) alla quarta stagione, non ha rinunciato ai suoi outfit sopra le righe e al suo sorriso ebete anche quando servirebbe un contegno più torvo, non è diventata una bohémienne consumata dal vizio e non dal rimorso, però, ecco, non è nemmeno più la ragazzina intrappolata nell’incanto del suo favoloso mondo dorato (o, meglio, color pastello). Emily s’è svegliata.
Emily in Paris 4: le geometrie d’amore in cui eravamo rimasti (incastrati)
Lo show Netflix, del resto, l’ha condotta lontano: l’ha de-americanizzata, scortata nella scoperta del godimento – la vita è business, sì, ma nel senso che viverla senza risparmiarsi (il piacere) è l’affare da chiudere – e dello struggimento amoroso, perché non v’è desiderio che non sia anche faticoso e destrutturante. Il suo ha un nome, Gabriel (Lucas Bravo), una professione – l’alta cucina –, una bella faccia virile illanguidita da un paio d’occhi blu, un’altra donna: alla fine della terza stagione, là dove l’abbiamo lasciato, scopriamo che presto avrà pure un figlio. Emily aveva già provato più volte a rinunciare a lui; era arrivato Alfie (Lucien Laviscount), inglese più o meno gentiluomo impiegato nella finanza ma senza ossessioni carrieristiche. Perfetto, sulla carta, ma Gabriel, l’uomo del sogno, non evaporava mai del tutto: restava una possibilità troppo vicina. Anch’essa sulla carta – nel duplice senso di teoricamente e di, non a caso, sul menu –, ma tanto bastava a opacizzare l’amore nuovo, a restringerne l’orizzonte, a costringerlo in uno spazio emotivo troppo angusto perché potesse prosperare.
Non riveleremo, in questa sede, se la scelta di geometrizzare in un triangolo – Emily-Gabriel-Alfie – e in un quadrato – Emily-Gabriel-Camille-Sofia – le dispersioni sentimentali di protagonisti sempre troppo indecisi viene ribadita nella nuova stagione oppure no, ma appare inevitabile osservare che le vicende amorose dei trentenni sembrano anche questa volta devitalizzate, disinnescate nella potenzialità eversiva e nella conflittualità cocente di ogni relazione duale proprio perché evasive, troppo aperte a fantasmi passati o proiezioni di future intrusioni. I Millennials rappresentati, con numerose patinature, non scontano tanto la mancanza di desiderio quanto una strana inibizione a agire, a ‘aggredire’ (metaforicamente) l’altro desiderato.
Emily in Paris 4: le vicende sentimentali dei trentenni, che noia!
I personaggi più giovani della serie hanno tutti paura di perdere qualcuno o qualcosa, tuttavia soprattutto hanno paura di perdersi e, ancor di più, di perdere la faccia. Nessuno di loro osa mai: quando sfuma un traguardo ambizioso, si festeggia il ritorno alla vita di prima, a quello che si conosceva già; quando si perde l’opportunità di legare qualcuno non più amato a sé, si mente per stringere ancora più forte il laccio. La libertà spaventa perché impone di lasciare andare: rinunciare a qualcosa, rinunciare a sé stessi, alla propria immaginaria onnipotenza. Serve una maschera per dire la verità; altrimenti si tentenna: l’audacia, si sa, è cosa da vecchi. Universalmente e, ancora di più, in questo slittamento sociologico per il quale i sessantenni oggi sono temerari e i trentenni timidi, ammosciati dalla loro stessa vanità. Più social che sociale.
Così, Emily in Paris 4, almeno a giudicare dai primi cinque episodi resi disponibili, conferma un’impressione già vivida nella stagione precedente: non sono le storie che riguardano i personaggi âgé di per sé più interessanti, ma sono più interessanti proprio perché riguardano i personaggi âgé, caratterizzati e interpretati con maggiore intensità. Sylvie vince ancora una volta la palma di carattere più appassionante, anche per merito della straordinaria Philippine Leroy-Beaulieu; in questa nuova stagione la ritroviamo sia accanto all’affascinantissimo ex ‘ex marito’ Laurent sia, da sola, al centro di una scena diversa, fuori dalla sua zona di comfort: la ribalta dell’impegno civile (c’entra il MeToo).
Emily in Paris 4 – Parte 1: valutazione e conclusione
Nella mediocrità della sceneggiatura – basterebbe pochissimo per renderla più tornita e sagace, ma tant’è – che, a ogni scambio di battute, avvilisce non solo per la scarsezza di autenticità, ma anche per l’inerzia nel passo, a un certo momento si staglia un inserto magnificamente concertato: la spiegazione di un pitch pubblicitario. Emily spiega a una nuova cliente, proprietaria di un marchio femminile specializzato nella cura dei capelli brizzolati, l’idea per una nuova campagna pubblicitaria introducendola a una categoria di pensiero da lei denominata “la zona grigia”, un nuovo territorio in cui la donna non più giovane può sperimentare due dimensioni esistenziali opposte e complementari: la privatezza nel vivere la propria intimità e l’esibizionismo nell’appropriarsi, di contro, di uno spazio pubblico di visibilità.
La donna matura, nonostante rifiuti gli artifici ‘ringiovanenti’, i sembianti di una femminilità immobilizzata alla stagione dello splendore della verde età, non è più invisibile, è anzi sotto gli occhi di tutti, padrona della propria esposizione anche mediatica. D’altra parte, però, quella donna, matura non solo anagraficamente, mette al riparo i suoi amori dagli sguardi (e dai giudizi) esterni. Un’aspirazione della stessa Emily, forse, e con lei di tutta una generazione, la sua: vivere a porte chiuse i sentimenti e difendere sul palcoscenico le idee; sostituire l’esposizione virtuale dell’intimità con l’esposizione al di là dello schermo di un’identità sociale, l’esibizione di valori e valore personale non più conservati all’ombra, sepolti dietro riguardi e modestie, schiacciati da un eccesso di autolimitazioni. Emily in Paris 4 si riscatta pian piano – i primi episodi inducono sopore, poi ritmo e appeal crescono – articolando dunque un nuovo discorso socioamoroso: occorre mantenere segreti i sentimenti, laddove, in senso contrario, serve liberalizzare il desiderio femminile di riconoscimento pubblico, la spavalda esigenza di essere viste per ciò in cui si crede (e, coerentemente, si fa) e non per chi ci si porta a letto. O sul tetto di un palazzo troppo affollato.