Esterno Notte: recensione della serie di Marco Bellocchio
Una serie che talvolta sfocia nell'assurdo, scavando nell'umanità, nelle parole dette. Esterno Notte vive di storia e di poesia, sull'orlo dell'idealismo, godendo di un cast impeccabile e di un comporto tecnico ineccepibile.
Con Esterno Notte Marco Bellocchio riprende in mano il caso Moro, ancora una volta. Dopo Buongiorno, notte (2003) adesso la narrazione si dilata nelle maglie larghissime della serialità, impigliandosi nella molteplicità di ben sei visioni che si raccordano e rincorrono vicendevolmente in un eterno ritorno di drammaticità, idealismo, paura e assurdità intarsiato di “what if”.
Sei stacchi, sei prospettive diverse di raccontare la stessa storia, divise in due parti e in uscita in sala con Lucky Red rispettivamente il 18 maggio e il 9 giugno 2022, prima di arrivare in TV su Rai Uno in autunno.
Esterno Notte mostra la storia del sequestro e del conseguente omicidio di Aldo Moro dall’esterno, inabissandosi in punta di piedi nel terreno impervio della paura e delle emozioni umane; palesando i dettagli ottici per mezzo di una fotografia (firmata da Francesco Di Giacomo) che si muove spesso di sbieco, tormentando col non detto la fantasia e alimentando l’ambiguità che alberga in ogni essere vivente, in un’Italia che tenta la rivoluzione restando “apparentemente” conservatrice.
In una cornice di blocchi di destra e sinistra, con la spada di Damocle ecclesiastica a pesare sulle coscienze politiche, il fondatore della Democrazia Cristiana si pone necessariamente come fulcro evolutivo e pretestuoso: nelle sue idee e nella sua figura si appiccicano tanto la fratellanza e il bene incondizionato quanto la paura della morte; l’odio verso i membri del suo partito quanto l’inadeguatezza della classe dirigente e la confusione delle Brigate Rosse. La sua figura è lo specchio d’acqua attraversato il quale il marcio del Paese viene filtrato e al contempo separato da una parte di bontà solo apparente, di soluzione e assoluzione solo illusoria.
Marco Bellocchio, con Esterno Notte, ci porta nella Roma di fine anni ’70, scandendo date e fatti e prendendosi qualche licenza poetica, ma lasciando intatto e palpabile quel clima di tensione, ribellione e malcontento che si respirava in quegli anni: strade invase dai manifestanti, vecchi contro giovani, fascisti contro comunisti, gruppi armati contro forze dell’ordine. Sono gli anni dei sequestri, degli scontri a fuoco, delle gambizzazioni e degli attentanti, gli stessi anni in cui lo Stato si trova messo con le spalle al muro da gruppi di sinistra attratti da una fatua idea di rivoluzione, materializzatasi con la nascita delle Brigate Rosse ed involutasi nella storia (ma questo lo avremmo saputo solo dopo) con l’omologazione sistematica al potere. È un anno, il 1978, dominato dalla figura di Aldo Moro, che dalla seggiola del Parlamento muove le fila per avviare un’apertura con il Partito Comunista (PCI) di Enrico Berlinguer; un’alleanza epocale, bloccata dal rapimento del Segretario della DC proprio nel giorno dell’insediamento del nuovo governo, il 16 marzo 1978.
Esterno Notte: una sceneggiatura che annienta i confini
Un evento che ha scosso le fondamenta storiche del nostro Paese e attorno al qualche ancora oggi aleggia un alone di mistero. Ma a Bellocchio e a quanti hanno curato insieme a lui la sceneggiatura della serie TV – Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino – non interessa immergersi nella melma di verità e menzogne: il loro è un racconto che scava, senza accanimento alcuno, nell’umanità di tutte le parti interessate.
Esterno Notte annienta i margini di presunti buoni e cattivi, estrapolando dalle loro parole e dai loro gesti gli ideali, i caratteri, le motivazioni più profonde e ponendo spesso e volentieri lo spettatore in un limbo sognante in cui il teatro dell’assurdo prende repentinamente il sopravvento.
Assurdo, si. Un aggettivo che ricorre più e più volte in senso letterale e figurato, in una prospettiva che condensa fiabe, sogni e pensieri satollando una tormenta inconsueta e malsana di analogie. Così il riferimento, stroncato sul nascere, al processo fatto a Pinocchio nello sceneggiato tratto dall’opera di Collodi, si lega all’aberrante processo illegale subito da Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e ancora quella visione fantasiosa in merito alla sua non morte, una parentesi che apre e chiude la serie lasciandoci naufragare nell’oceano della relatività, in una divagazione a tratti pirandelliana in cui la morte coincide con la liberazione e al contempo con la perdita di identità.
Marco Bellocchio scruta i cinquantacinque giorni del sequestro addentrandosi in una ripetitività obbligatoria, in un’esposizione che trasuda il peso della storia senza tuttavia riuscire pienamente a trasporla sulla nostra pelle. La furia, la confusione, lo smarrimento e gli affanni restano in uno spazio etereo, laccati di ipocrisia, in una messa in scena che si adagia fin troppo ai canoni seriali, dilatando i tempi e quindi automaticamente dilaniando il cuore pulsante del racconto, il cui fulcro si smarrisce negli anfratti dell’abbondanza, intarsiato – come è giusto che sia per un prodotto destinato alla TV – di piccoli barlumi di ilarità.
Ciò che resta in superficie sono discorsi ampollosi e precisi: un modus dicendi che classifica i parlanti, applicando una selezione tra vecchia e nuova classe dirigente. Esterno Notte, in tal senso, è un susseguirsi di massime esistenziali: un manuale di sopravvivenza alla vita politica e sociale, attraverso il quale insinuarsi nelle sfumature di parole come fratellanza, odio, religione, rivoluzione, obbedienza, sacrificio, amore. Le parole, in quest’ottica, sono giostre sulle quali salire al volo, valide per ogni uomo e in ogni tempo: si staccano dalle formularità fraseologica per farsi carne e da sogni divengono visioni e rappresentazioni. Va citata, a tal proposito, la visione di papa Paolo VI (Toni Servillo) il quale sostituisce all’immagine di Gesù, durante la via Crucis, quella di Aldo Moro, condannato a morte dall’intera classe politica, la stessa che lo santificherà immediatamente dopo la sua esecuzione.
Aldo Moro come Gesù Cristo nella serie TV di Marco Bellocchio, composta da un cast ineccepibile
Perché Aldo Moro, politicamente e personalmente, è solo un pedone in una scacchiera in cui si muovono le fila della politica nazionale ed estera, oltre che i vari gruppi politici non parlamentari e la popolazione italiana (anch’essa frammentata per ideologia e classe di appartenenza). E in quanto singolo pedone è in fondo trascurabile e sacrificabile, poiché il primo posto va di diritto allo Stato, alla sua fermezza e credibilità. Ma un uomo, seppur politico, seppur grande, ha il diritto di tremare dinnanzi alla morte. Ha l’autorizzazione non scritta di essere, semplicemente, mortale. E con quei piccoli occhi mortali, nella complessità della storia che scivola tra le sue mani, avere la pretesa di provare a fermare il suo tempo, di tentare di strappare ancora un sorso di vita. E provare, magari, anche un po’ di odio e perdizione o, banalmente, il desiderio di morire inosservato nel sonno.
Fabrizio Gifuni indossa con sconvolgente abilità tutte le maschere di Aldo Moro, infondendo anche nel frangente della sua assenza una profonda presenza scenica. Il suo io è un’ombra che inghiotte chi l’osserva, chi lo immagina, chi lo ascolta o sogna. È l’onda di un cambiamento irrealizzabile, che perciò vediamo incastrato esattamente nel fondo dei suoi occhi, nutrirsi degli strascichi di un avvenire mai concreto che nella morte suggella l’incompatibilità italiana al mutamento e all’apertura.
Una figura che si fa carne – proprio come quel Cristo a cui viene spesso paragonato – nello scarto e nell’incontro/scontro con gli attori che ruotano attorno alla sua vita e che si riversano, per antonomasia, nella rappresentazione seriale. La Eleonora Moro a cui presta il volto la grande Margherita Buy sa essere di una lucidità folgorante e spiazzante, la metà esatta di un uomo che per sostenere il peso del mondo politico va in cerca di sostengo domestico, incappando – come tutti i mariti e i padri – nelle mancanze e nei dilemmi quotidiani. È lei che si fa silenziosa portavoce del capitolo dedicato alla rappresentazione femminile in tutte le sue sfaccettature: dalle mogli degli agenti della scorta alla ragazza delle Brigate Rosse interpretata da Daniela Marra fino alle figlie di Moro, Esterno Notte si prende giustamente lo spazio e il tempo per mostrare al pubblico questa faccia della storia, fatta di donne che – buone o cattive – ci rimettono e ci credono sempre un po’ di più.
A brillare però è chiaramente anche papa Paolo VI, a cui Toni Servillo regala solennità, cuore, dolcezza e attimi di distacco, in una rappresentazione alquanto veritiera, proprio al pari di quella realizzata da Fausto Russo Alesi, il cui Francesco Cossiga (figlio politico di Moro) si impone dal secondo step in poi come sostegno folle, amichevole e parzialmente corrotto, attraendo su di sé le attenzioni dello spettatore e manipolando l’andamento emotivo dell’opera, dirottandola talvolta verso siparietti scanditi da ilarità e fantasia. Nelle sue speranze iniziali Bellocchio raggruma le più disparte visioni, aprendo la strada a una fotografia solitaria e distaccata dal mondo materico.
A lasciare allibiti è invece, se non l’impeccabile interpretazione di Fabrizio Contri, quanto certi dettagli affibbiati alla figura di un notoriamente gelido e impenetrabile Giulio Andreotti. Al netto di ciò il cast si incastra alla perfezione nella grande macchina di Esterno Notte, includendo tra gli interpreti anche Gigio Alberti (Benigno Zaccagnini), Gabriel Montesi (il brigatista Valerio Morucci), Paolo Pierobon (Cesare Curioni), Pier Giorgio Bellocchio, Antonio Piovanelli, Bruno Cariello e Luca Lazzareschi.
Esterno Notte e la colonna sonora di Fabio Massimo Capogrosso
Nella collana di episodi che propongono una storia nota a chiunque, sforzandosi di rimanere nel terreno neutrale dell’arte rappresentativa, la sinfonia composta da Fabio Massimo Capogrosso si pone come collante dell’intera opera, donando sussulti, battiti, frastuoni; travolgendo nel marasma del cambiamento per poi adagio farci placare nel buio dei nostri occhi chiusi. Per mezzo di pianoforti, tamburi e violini la musica si addensa sullo schermo, assumendo forme e colori e riempendo gli spazi troppo aperti o le frasi rimaste in sospeso. La colonna sonora di Esterno Notte è un fantasma che si agita in lungo e largo nella narrazione sconfinando nella nostra anima più cupa e portando a galla la rabbia, il timore, quel senso di inadeguatezza che ha provato o proverà (ameno una volta nella vita) chiunque. Sa essere solenne, mai troppo sfacciata; essa si amalgama precisamente con quella fotografia a tratti spezzata di Francesco Di Giacomo, asseconda l’alone nero che cala su certe scene in cui c’è Cossiga in solitaria, le riprese che ci spingono col volto all’insù, in uno strascico malridotto di bandiere rosse che, per compostezza e colori, sembrerebbero la parte mancante de La Libertà che guida il popolo (Eugène Delacroix, 1830). Ma la libertà in fondo qui non esiste, perché a guidare tutto è la voglia che niente cambi; lo spasmodico slancio verso una rivoluzione a cui nessuno crede e che dunque resta lì, irrisolta e irrequieta, inesplosa.
E forse anche Esterno Notte avrebbe potuto fare più rumore, ma prendiamo l’opera di Marco Bellocchio per ciò che vuole essere: la dilatazione seriale di un fatto già narrato, impreziosito da un comparto tecnico degno di nota. Un palesarsi umano che si pone l’obiettivo di sopravvivere all’assurdo, all’inspiegabile, alla storia che è stata e a quella che non è stata mai narrata.