Fauda: recensione della stagione 2 della serie Netflix
La recensione di Fauda 2, la seconda stagione della serie TV Netflix disponibile in streaming e ideata da Lior Raz e Avi Issacharoff
Un mondo spietato e brutale. Una guerra lenta, continua e inesorabile. Un Male che non sembra avere mai fine. Sangue, dolore, lacrime e morte, sono queste le forze che animano Fauda, la serie Netlix ideata da Lior Raz e Avi Issacharoff. Non c’è pace mai e nessuno è mai salvo nello show che ha fatto ottimi ascolti sia su Yes, rete israeliana su cui viene trasmesso sia su Netflix – proprio grazie ad essa acquista popolarità. La seconda stagione di Fauda (che significa caos), sulla piattaforma dal 24 maggio, ricomincia riportando lo spettatore in quel conflitto israeliano-palestinese dove sembra che l’unico scopo sia l’annientamento reciproco. Terrorismo e anti-terrorismo, attentati, sparatorie, vendette su vendette e tradimenti si susseguono davanti agli occhi di chi guarda facendo tremare le vene e i polsi.
Fauda: Doron, un disperato “cane d’attacco”
Doron, interpretato dall’attore Lior Raz, nella seconda stagione non è cambiato, tormentato da se stesso e dalla vita che sembra avere – nonostante tutto, la famiglia, gli amici, la vita stessa – un solo scopo: il suo lavoro. L’uomo ha tentato di stare lontano dalle armi, dalla guerra, dalla sua squadra ma è impossibile, torna più intenzionato di prima a sconfiggere il Nemico, un nemico ancora più crudele e determinato, Nidal, alias “Al Makdasi”, il figlio del leader di Hamas, che vuole vendicarsi di lui per la morte di suo padre.
Doron rientra nella squadra per scovare l’ideatore di un attentato, come in una corrida il toro attacca quando vede rosso così lui, spietato, è pronto all’azione perché così gli è stato insegnato. Non si tira indietro mai, uccide e non ne ha paura, è il leader indiscusso della sua squadra anche se spesso le sue decisioni, le sue azioni vengono contestate.
Doron è duro, rigido, votato all’azione ma è anche pronto alla carezza e all’amore, è un padre tenero e delicato, è un (ex)marito sempre presente, è un uomo innamorato nonostante tutto, rischia anche la vita per Shirin, le dona una collanina per ricordarle lui, ciò che c’è stato tra di loro e ciò che sempre ci sarà. C’è infatti una parte fragile in quest’uomo che purtroppo viene scavata non a sufficienza, non entrando ancora più in profondità in una disperazione che è più fisica che interiore (si resta imbrigliati in quel topos dell’uomo d’armi tutto d’un pezzo). Si spezza ripetutamente, dopo la morte del cognato/compagno/amico, dopo la scoperta del tradimento della moglie – nella prima stagione – e anche in questa seconda continua ad essere destinato al travaglio, ad un calvario senza senso e senza sosta. L’uomo armato fino ai denti, bellicoso, addestrato ad operare, a premere il grilletto, a “sopportare” proiettili e botte, non è pronto però ad accettare l’umano che c’è in lui perché non è abituato a farlo. Doron qui viene inondato dal suo stesso dolore, dalla morte che gli cade addosso per sua stessa colpa – la legge dell’occhio per occhio si abbatte su di lui -, dice infatti di essere un morto che cammina, sostenuto solo dalle mere funzioni vitali. L’uomo è programmato per affrontare qualunque guerra, anche lenta, faticosa da sopportare (quella con il sempre più terribile Walid, assettato di sangue, di vendetta e di odio, e quella con il diavolo Nidal) ma ad un certo punto ciò che gli capita sembra essere insuperabile.
Fauda: una squadra che è come una famiglia
In quei momenti, quando tutto crolla addosso a Doron sono proprio i suoi compagni a stringersi attorno a lui, sono loro che lo sorreggono e lo rincuorano dandogli l’impressione di non essere solo.
Quell’uomo che sembra una macchina da guerra può essere fragile come una canna al vento, bisognoso d’affetto come un bambino che si sveglia per un brutto incubo. Non è però un incubo è la dura realtà di Doron che in più di un’occasione ripete che non crede di farcela. Durante il funerale del padre, dopo la perdita di una donna amata, ci sono sempre quelli con cui passa le sue giornate tra proiettili e bombe, tra operazioni e pianificazioni, ci sono loro che come in una famiglia, mettono da parte liti, discussioni, problemi per partecipare al suo dolore e abbracciarlo.
Fauda: la vendetta come unica via
L’unica cosa che si può fare però in Fauda per superare il mondo che sta attorno è cullare e alimentare la vendetta. Essa è una dea terribilmente affascinante che riesce almeno per un secondo a portare un po’ di pace; non c’è una fazione depositaria di questa sirena tristemente ammaliatrice. Tocca tutti, nessuno ne è esente: muove Walid che ancora odia la sua Shirin per averlo tradito e umiliato, Nidal, lo stesso Doron e anche la sua squadra e per costoro è una forza che li anima e li sveglia da quel torpore in cui sono intrappolati. Questo è un vessillo che viene portato con orgoglio sfrontato e bieco ma lo spettatore è spinto a capire e a comprendere il protagonista e i suoi sperando che riescano a lavare col sangue l’onta subita. Forse è proprio questo un limite, quello di costruire un mondo fin troppo manicheo: nonostante Doron spesso sia violento, spietato chi guarda è portato a stare dalla sua parte, viceversa quando vediamo il terribile Walid piangere per la donna perduta non proviamo neanche per un secondo un qualche tipo di vicinanza.
Fauda: il racconto di un mondo ferito
Fin dalla prima stagione Fauda ha raccontato un mondo ferito, violentato, canceroso, un mondo abitato da un conflitto senza esclusione di colpi, quello israeliano-palestinese, in questa seconda stagione gli ideatori sembrano aver alzato ancora di più l’asticella, forse anche perché gli echi di quella “contesa” sono sempre più fragorosi e devastanti: le due fazioni sono più che mai intenzionate a finire gli avversari, ne sono testimonianza il sequestro di Walid ma anche l’operazione in cui la squadra si trova in grave pericolo. Giocano come al gatto con il topo, accerchiando ora gli uni ora gli altri, sferrando colpi mortali ad un corpo che ha tanti cuori di riserva e non soccombe mai. Il capitano Ayub lo dice, il mondo a volte fa schifo, ma è così, non ci si può fare nulla. Questa è la condizione umana e la vita di Doron ne è la prova, come ne sono la prova tutte le storie che crepano quella disperata terra.