Fleabag – Stagione 2: recensione della serie tv Amazon Prime Video
Su Amazon Prime Video dal 17 maggio 2019, la seconda (e purtroppo, ultima) stagione di Fleabag, una serie di rara grazia sulle quotidiane altalene emotive di una trentenne sofferente e spiritosissima.
Dimenticate il narcisismo di Lena Dunham, lasciate perdere le velleità di Greta Gerwig. In giro non c’è nulla che sia ispirato e ironicamente dolente come la penna di Phoebe Waller-Bridge, autrice e interprete che si distingue per la scrittura spiritosa e profonda: le due qualità, insieme, sono merce rarissima, quasi introvabile. Il suo Fleabag, che arriva su Amazon Prime per la seconda stagione in sei episodi di circa mezz’ora ciascuno, è un romanzo postmoderno di formazione ed espiazione. Protagonista una donna di trentatré anni che ha perso nel giro di poco tempo i suoi punti di riferimento: la madre e la sua migliore amica, morte entrambe, e la seconda delle due a causa sua. Attraverso l’inferno privato di traumi che non possono sciogliersi nella parola, di una sessualità scomposta e compensatoria, di dipendenze affettive e vuoti fagocitanti, Fleabag risale faticosamente l’imbuto dello smarrimento verso una purgatoriale collina dell’autoassoluzione senza perdere, nel tragitto, il suo umorismo goffo e spiazzante, il punto di vista originale sulla realtà, il candore nello sguardo che risolleva e riscatta ogni intemperanza e ogni ‘peccato’ commesso.
Fleabag – Stagione 2: Andrew Scott, nei panni di un sexy prete, entra nel cast
L’uso di una terminologia religiosa e dantesca non è casuale perché la seconda stagione, pur nella prosaicità e nella quotidianità delle vicende mostrate, è pervasa da una spiritualità inaspettata quanto potente. Il personaggio che più ha acceso le fantasie degli spettatori britannici – Fleabag è stata trasmessa sulla BBC lo scorso aprile – è quello del prete cattolico chiamato dalla matrigna – la portentosa Olivia Colman, nella parte di un’artista autocompiaciuta e ipocrita – a celebrare le sue nozze con il padre vedovo di Fleabag (Bill Paterson). Andrew Scott, attore dublinese quarantenne che restituisce una prova quasi indimenticabile, interpreta un uomo di Chiesa molto umano, molto terreno e molto sexy (il papa sorrentiniano è avvisato): dice parolacce, fuma e beve birra, fa battute e si diverte abbastanza, spesso depone l’abito talare, alla fine cede all’amore fisico.
La seconda stagione di Fleabag, più romantica e spirituale (ma senza melensaggini)
C’è solo un modo al mondo per non trasformare una relazione così, fra una giovane donna con il caos nella testa e un giovane uomo che ha trovato in Dio la pace, in un mélo stucchevole e di cattivo gusto. Questo modo è, semplicemente, essere molto bravi. Phoebe Waller-Bridge è la più brava di tutti e, senza autocompiacimenti, indulgenze e artifici, porta sullo schermo, poeticamente, in questa seconda serie più poderosamente romantica e spirituale della prima, una storia d’amore apparentemente anticonformista, ma in verità a suo modo banale, che chiude molte ferite (non tutte) e nell’amore come linguaggio (dunque, non solo erotico, ma generativo, liberatorio, autocurativo) trova il codice per decifrare la vita, per consolarsi per ciò che non va e per continuare ad avere speranza perché «essere romantici richiede speranza e quando trovi qualcuno d’amare è un po’ come sperare».
Phoebe Waller-Bridge, autrice e interprete protagonista, ha una scrittura ispirata e moderna, priva di qualsiasi affettazione
Non credete a chi ha scritto che il prete sexy di Fleabag è un manipolatore irresponsabile, un opportunista e un narcisista anaffettivo. Non ci credete perché non è vero. Tutto nel modo in cui i personaggi si donano e interagiscono è fragile e vero. Niente si può ridurre a schema o guerra fra sessi perché scrittura e interpretazione si specchiano e si corrispondono nella sottigliezza psicologica e nella volontà di dare forma a uomini e donne senza modelli e senza costrutti, con bisogni e accartocciamenti, con luminose intelligenze e penosi dispiaceri.
In una Londra che non somiglia affatto a una Babilonia alienante – Babilonia è nella testa e nelle emozioni, mai fuori di esse – ed è anzi domestica ed elegante, i personaggi di questa serie che fa ridere e piangere con levità cercano con fatica di aggiustare le loro vite, rimettere insieme i pezzi delle loro famiglie disfunzionali, lasciarsi alle spalle mariti impresentabili, trovare la pazienza per ricostruirsi dopo un lutto. A salvare tutti non è l’amore erotico, ma lo scambio che affratella, la sorellanza che può manifestarsi, inattesa, anche attraverso la crisi nervosa aperta da un taglio di capelli mal riuscito. I tempi non sono mai così cattivi da non trovarci uno scrittore buono, potremmo dire parafrasando la celebre citazione di Tommaso Moro. E se c’è buona scrittura, c’è sempre, come per l’amore, speranza. Il talento di Phoebe Waller-Bridge e Fleabag sono definitivamente una buona ragione per coltivare questa speranza.